lunedì 11 agosto 2014

OK computer


Una quindicina di anni fa circa (facciamo quasi venti) mi capitò di leggere in una rivista di psicologia (a mia giustificazione posso solo dire che sono sempre stata una lettrice vorace, e in quel momento non avevo altro sottomano) un articolo che trovai interessante, e che riguardava uno dei tanti tentativi di insegnare ad un computer a pensare come se fosse un essere umano.

Come quasi tutti gli scienziati informatici ci hanno spiegato (ferocemente quanto onanisticamente smentiti in questo dagli scrittori di fantascienza) si tratta di un'impresa praticamente impossibile, eppure di tanto in tanto qualcuno ci prova, forse per rassicurarci del fatto che siamo ancora noi l'unica e sola meraviglia del creato.

Il tentativo in questione era quello di fornire ad un cervello elettronico gli elementi principali di una favola, e poi vedere se riusciva a ricrearla, ripensarla come l'originale. La favola era quella del corvo e della volpe, un classico di Esopo che credo tutti conosciamo; la riporto qui di seguito, a memoria.

"C'era una volta un corvo, appollaiato su un albero, che aveva rubato un pezzo di formaggio. Il corvo aveva molta fame; stava per mangiarsi il pezzo di formaggio quando una volpe passò sotto l'albero.

La volpe diede un'occhiata al corvo, vide il formaggio e pensò subito ad un modo per ottenerlo. Iniziò dunque a blandire il corvo:
«Caro corvo, come sono stata fortunata ad incontrare un uccello stupendo come te!»

Il corvo, sorpreso, si arrestò e si sporse per ascoltare meglio.
«Guarda che piumaggio meraviglioso che hai, non ha uguali per eleganza in tutto il regno animale!»
Il corvo iniziò a gongolare.
«E la tua voce? Melodiosa e soave, più di un fringuello, meglio di un usignolo!»
Il corvo era in sollucchero.

«Ti prego, magnifico corvo, allieta le mie stanche orecchie con il tuo canto celestiale!»

Come il corvo aprì il becco per cantare il pezzo di formaggio cadde a terra, dove la volpe con un balzo lo lo mangiò e poi se ne andò."

Questa grossomodo è la storia ufficiale. Ecco come la interpretò il computer:

"C'era una volta un corvo, appollaiato su un albero, che aveva rubato un pezzo di formaggio.

Il corvo aveva molta fame; si mangiò il pezzo di formaggio.


Una volpe passò sotto l'albero, diede un'occhiata al corvo, non vide niente di interessante e se ne andò."

Una reinterpretazione rapida e sintetica, logica come un vulcaniano. Non so se da quindici o venti anni in qua l'intelligenza artificiale è cambiata, si è evoluta, ma credo che possiamo stare tranquilli, non sentiremo parlare di Skynet e Terminator ancora per un bel po'.

venerdì 8 agosto 2014

Il mio tessssoro!!!



(Syuzee A versus Syuzee B, al banchetto dei libri del centro commerciale.)

Syuzee A: “Oh! Cosa sono questi, libri scontati?”
Syuzee B: “Siiiì! Guardare guardare guardare!”
A: “Uhm… cos’è questo? Il libro segreto di Superman…”
B: “Ma che diavolo è?? Roba da boy-scout??”
A: “Mi sa proprio di sì… spiega come steccare gli arti rotti, e altre cosette del genere…”
B: “Bleah!”
A: “Vediamo… L’isola dei morti di Valerio Massimo Manfredi…
B: “Ma lascialo perdere… e poi non vedi che caratteri grandi? Tempo due giorni e l’hai già finito…”
A: “Aspetta: Dominique Lapierre, C’era una volta l’URSS.”
B: “Lapierre mi piace, Parigi brucia, La città della gioia, Il quinto cavaliere
A: “Mezzanotte e cinque a Bhopal.”
B: “Quello è meglio lasciarlo stare.”
A. “E perché? Non ti è piaciuto? Ricordi l’episodio delle due donne, l'indù e la musulmana, che si contendevano il cadavere dello stesso uomo per avere il risarcimento come vedove?”
B: “Si, e poi un tale gli dice di controllare se il cadavere è circonciso oppure no… e tu ricordi invece a chi l’hai regalato quel libro?”
A: “Ehm… si, lo ricordo. Hai ragione, lasciamo stare.”
B: “Dice se l'ha scritto insieme a Larry Collins per caso?”
A: “Uhm… no. L’ha scritto insieme ad una giornalista nel 1956, girando la Russia su una Simca…”
B: “Sarà mica una roba alla Terzani? No, perché se è così dillo, che lo lasciamo giù.”
A: “No, non sembra… lo sai che mi potrebbe servire per il libro che voglio scrivere. E poi sfogliando le pagine sono sicura di aver visto la parola amore libero.”
B: “OK OK. Quanto costa?”
A: “Scontato, meno di cinque euri.”
B: “Va bene allora. Lo sai che non compriamo (quasi) mai libri più cari di così, sennò col poco tempo che ci durano sai che spesa…”
A: “Lo so, lo so… (taccagna).”
B: “Oh, guarda là! Libri a due euro e novanta!”
A: “Uhm… Il segno dei quattro di Conan Doyle… Sherlock Holmes, straletto…”
B: “E quell’altro?”
A: “Soluzione sette per cento di Nicholas Meyer.”
B: “Cosa dice la quarta di copertina?”
A: “Sono i diari segreti del dottor Watson. Qui dice che per guarire Holmes dalla sua dipendenza dalla droga lo porta da Sigmund Freud.”
B: “Aspetta, aspetta… ma non ci hanno mica fatto un film?”
A: “Si, mi sembra proprio di si… ricordo la scena di quando vengono quasi schiacciati dai cavalli…”
B: “Bah! E poi non è nemmeno di Conan Doyle…”
A: “Già. E questo? Antiche sere di Norman Mailer, volume primo.”
B: “Guarda se c’è anche il secondo, lo sai che sono anale e odio le cose fatte a metà.”
A: “Hmm… si, c’è anche il secondo.”
B: “Humm… Ma ti prego! Guarda la copertina! C’è una tipa su un baldacchino, piena di piume!”
A: “Lo sai che non giudichiamo i libri dalla copertina…”
B: “Ma guarda com’è scritto in piccolo! E tu, bella mia, stai invecchiando e la tua vista non è più quella di prima!”
A: “(Fanculo, stronza) ehi! La traduzione è di Pier Paolo Pasolini!”
B: “Ma cosa cazzo dici, è di Pier Francesco Paolini!!! Lo dicevo io che non vedi un cazzo… vabbè, leggimi la quarta.”
A: “Nella piramide di Khufu, in Egitto, più di trentatré secoli fa un uomo, forse uno spettro, si aggira smarrito tra il mondo dei vivi e la terra dei morti…
B: “Uhm… non sembra un granché.”
A: “Eddai…”
B: “Vabbé, ultima possibilità… pagina a caso, frase a caso.”
A: “Occhei. «Voglio l’altra,» Le dissi. E Essa rispose: «Non entrerai per là, finché la birra non schiumerà nel tuo boccale». Quindi seguitai a fotterla in culo…
B: “PREGO??!?”
A: “Sisì, dice proprio così.”
B: “LEGGERE, LEGGERE!”
A: “Dall’inizio del paragrafo. Potei alfine penetrare in Lei. Certo, l’espugnazione del Suo regal culo fu impresa degna di Amen-khep-shu-ef. Dopo la prima porta, ce n’era un’altra, ed Essa era come una fortezza con molte cerchia di mura, e l’assedio fu lungo. Tuttavia, La sfondai, e viaggiai dentro la Sua terza bocca, su, su, a spinta a spinta, da pari a pari, ma, siccome era la Sua vagina che volevo, il mio desiderio non poteva ancora estinguersi. Palla-di-Miele mi aveva detto, una volta, che le donne penetrate dalla terza bocca sentono l’ira di Set fremere in loro, e non possono rispettare l’uomo che le incula. S’intende, noi dobbiamo rispettare soprattutto chi è capace di ucciderci, e nessuna donna morrà mai di parto, allorché la crema dell’uomo le viene iniettata nel retto.
«Voglio l’altra,» Le dissi. E Essa rispose: «Non entrerai per là, finché la birra non schiumerà nel tuo boccale».
Quindi seguitai a fotterla in culo, e vidi tutte le facce di Heqat e Palla-di-Miele. Le Sue narici erano assai contorte e Essa grugniva come una troia; forse quello, dei Quattordici Suoi Ka, non aveva mai, finora, conosciuto un tal piacere!
B: “Questo libro VA comprato!”

(28 luglio 2010)

Dal maledetto dentista


E' un fatto che dal dentista non ci vai mai per una visita di cortesia, del tipo "passavo di qua e sono entrata a salutare", ci vai perché ti fa male qualcosa il che implica due fatti: a) ti metterà le mani in bocca e a te non piace e b) ti costerà un sacco di soldi.

Il mio dentista poi è un tipo scontroso ai limiti della maleducazione, burbero e misògino, ma siccome è anche schiantagnocche (e fedifrago, un bastardo insomma) si circonda di assistenti giovani e carine, che però (appunto) tratta malissimo, ai limiti del mobbing. Ma come dentista è bravo, per questo lo tengo, e mi conosce da quando avevo ancora i denti da latte.

Tempo fa avevo bisogno di una sistematina, per cui ero stesa sulla poltrona con la luce in faccia e la bocca spalancata, tesa - come al solito - tipo asse di legno. Ad un certo punto, verso la fine dell'opera dentistica, alla radio che sta di sottofondo iniziano a trasmettere Running in the family dei Level 42.

E' una canzone alla quale sono particolarmente legata, mi ricorda l'estate del 1989 (era appena uscito Level Best, la raccolta dei grandi successi), la prima vacanza con la macchina "mia", il campeggio con gli amici a pizza e Gatorade, i miei (quasi) vent'anni. Fu l'ultima delle mie vacanze veramente spensierate: avevo appena finito il liceo, a settembre sarei entrata nel "giro grande", avrei iniziato a farmi largo nella vita, e ancora non sapevo come sarebbe stata, cosa sarei diventata. Tutto era ancora possibile...

Mi sveglio da questo tuffo nei ricordi rendendomi conto che l'assistente del dentista, una giovane apprendista sulla ventina (come me a quei tempi) sta canticchiando la canzone. In un momento di pausa le faccio: "ma conosci anche tu i Level?"

Lei mi risponde, innocente: "sì, li ascolto da quando ero bambina. Mio papà me li faceva sentire che ancora andavo all'asilo..." Faccio due conti a mente: quando io la ascoltavo - e stavo facendo la patente - tu andavi ancora all'asilo... e di colpo mi fai piombare addosso il peso di tutti gli anni che sono trascorsi da allora ad oggi, stronzetta di assistente odontotecnica...

Quasi quasi sono felice che lavori per quel bastardo del mio dentista.

mercoledì 30 luglio 2014

Morelle DeKeigh


Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, esisteva un'edicola dei giornali dalle parti del centro città, davanti alla quale passava molta gente. Eravamo sul finire degli anni ottanta, e nelle edicole esistevano cose come giornali e videocassette pornografiche, manufatti oggi pressochè estinti e soppiantati da freddi equivalenti elettronici. Un giorno per puro caso ci passai davanti.

Allo scopo di attrarre gli ignari passanti (vabbè, alla fin fine poi mica tanto ignari), gli astuti edicolanti esponevano questi articoli in punti prestabiliti e in determinate ore del giorno e della notte, in modo da non scioccare i benpensanti;  i frontespizi di queste riviste erano infatti rutilanti promesse di piaceri sessuali inarrivabili, di inavvicinabili, peccaminosi paradisi esotici. Toccava accontentarsi di un surrogato in carta patinata.

Quel pomeriggio di fine anni '80 il mio sguardo di ignara passante venne catturato da una rivista di cui non ricordo il titolo, ma che sviscerava senza ombra di dubbio tutte le geometrie possibili dell'amore transessuale. A riprova, un volto sorridente occhieggiava dalla copertina, un viso palesemente ambiguo eppure raggiante e felice, di una gioia così vera e sincera da essere quasi commovente.

Forse proprio per via di quella sincerità quel viso mi rimase impresso, indelebile negli anni a seguire: una chiostra di denti bianchissimi e abbaglianti, delimitata da labbra rosso fuoco; un velo di ombretto lilla sulle palpebre, e la floridezza della salute e della gioventù sulle guance. L'avete vista nella foto qui sopra, trovata su internet dopo alcune ricerche.

All'epoca poco si conosceva della reale identità di queste creature che sembravano vivere solo nelle fotografie di quelle pagine; le storie che accompagnavano quei servizi fotografici camuffavano nomi, luoghi, epoche in maniera grossolana e porcelleccia, e così l'ambigua creatura di Ipanema poteva diventare, nella successiva edizione, una improbabile girl next door (non del tutto girl a dire il vero) dell'hinterland de noantri oppure una casalinga "con sorpresa" per l'idraulico di turno. Poteva chiamarsi di volta in volta Susanna, Carolina o magari Chantal, non era importante; quello che contava veramente era far sognare i lettori (OK forse il verbo "sognare" non è quello giusto, ma suvvia non siate volgari).

Oggi, grazie a internet, non è più così. Di certe celebrità si conosce vita, morte e miracoli. E così ho scoperto in un sito di old glories trans che quella creatura così - apparentemente - piena di vita e di gioia si chiamava Morelle DeKeigh (certamente un nome d'arte, però stavolta un vero nome d'arte), che oltre a lavorare per l'industria del porno si prostituiva, come accadeva e continua ad accadere anche oggi a tante trans. Morelle è nata in Colombia nel 1969, ha vissuto a New York, ed morta di AIDS nel 1994. Una biografia abbastanza scarna; nemmeno due righe per contenere una intera vita, buttata via.

Ma quella era la preistoria del porno, effimera e poco documentata. Oggi si può trovare molto di più, ad esempio su Camilla De Castro, morta suicida nel 2005 (c'è chi dice per depressione, chi perché aveva scoperto di essere sieropositiva). O su Satiny Miranda, morta di meningite (causata indovinate un po' da cosa? Certo, dall'HIV). O su tante altre, finite ugualmente male per mano propria o altrui.

Ad ogni modo, si potrebbe dire che niente sfugge oggi all'immenso potere della memoria di internet. Ma per fortuna ci sono delle persone che sfidano questo (stra)potere, con la forza della loro ignoranza. Gente che si limita a guardare solo le figure, e piuttosto di leggere anche due righe si farebbe ammazzare, con questo vanificando ogni tentativo si dossieraggio in stile Stasi di internet.

Ed ecco che alcuni di questi eroi, in una pagina di commemorazione di Camilla, commentano così: "hmm, come ti scoperei!" Già. Vorrei proprio vedere.

martedì 18 marzo 2014

E' un anno oggi. Ho dovuto rivedere il post che avevo scritto allora per rendermene conto, perché sono una frana con le date ma, soprattutto, in realtà non me ne sono mai resa conto del tutto. Da quando non ci sei più mi manchi tantissimo. W mi ha spiegato che quando scrivi rivolgendoti ad una persona che non c'è più in realtà stai scrivendo a te stesso. Mi sa che W ha ragione. Non mi illudo che dove sia tu adesso, se poi sei davvero da qualche parte, riesca a leggere il mio blog; e allora mi sa che questo è lo sfogo di una persona che ti ha voluto bene e non ha potuto nemmeno piangerti come si deve. Tante volte ti ho pensata, in questo anno, quasi ogni giorno. Mi sembrava di poter fare il tuo numero di telefono, scriverti due righe su messenger, e saresti stata lì. E' passato un anno ma non mi sembra ancora vero, amica mia.

venerdì 7 marzo 2014

Endorfina mon amour



Qualche giorno fa per caso mi sono imbattuta in una pagina di un sito BDSM che parlava delle endorfine. La cosa mi ha incuriosita e mi sono letta tutta la pagina; in pratica viene spiegato come l'attività BDSM possa scatenare questa sorta di droga naturale prodotta dal nostro organismo. Devo dire che ho trovato tutta la teoria molto interessante, e per quanto mi riguarda parzialmente verificata, per cui ho deciso di tradurvi l'articolo (era in inglese) e riproporvelo qui. Ma prima che leggiate occorre fare alcuni doverosi distinguo.

Innanzitutto guai a pensare che l'SM si esaurisca tutto in un gioco di biochimica; l'articolo non dice questo, ma spiega quale potrebbe essere la correlazione biofisica tra dolore e piacere. Detesto il dogmatismo, specie se scientifico, e sono sempre sospettosa di certe semplificazioni; credo che la realtà siasempre molto più complicata di come una se la dipinge.

In secondo luogo, le opinioni espresse nell'articolo non riflettono necessariamente quelle della sottoscritta, che si ha solo tentato di metterlo in buon italiano. Posso dire di aver colto qua e la alcuni interessanti spunti di riflessione, e spero la stessa cosa possa succedere anche a voi.

Terzo e ultimo, non si tratta di alcun messaggio ad personam, per nessuno. Che ognuno abbia il proprio modo di vivere l'SM, e di vedere se stesso. Però confrontarsi ogni tanto con ciò che consideriamo come altro non fa male.

Ah, l'articolo potrebbe sembrarvi a tratti è un po' nozionistico, sconclusionato, paternalistico. Portate pazienza, cercte di prendere solo quello che vi può sembrare interessante. Buona lettura.


Endorfine, il punto di vista del BDSM

Endorphins – The BDSM Point Of View, in BDSM Digest, 19 gennaio 2010

Le endorfine sono sostanze oppioidi polipeptidiche. Sono neurotrasmettitori, composti chimici coinvolti direttamente nel funzionamento elettrochimico del cervello. Vengono prodotti nella ghiandola pituitaria e nell'ipotalamo dei vertebrati in seguito ad esercizi affaticanti, eccitazione, dolore, uso di cibi speziati ed orgasmo, e rassomigliano agli oppiacei nella loro capacità di produrre effetti analgesici e sensazione di benessere. Secondo alcuni studi, ridere provoca il rilascio di endorfine nel cervello, mentre alcuni podisti descrivono una sensazione conosciuta come runner's high o "sballo del corridore." Esercizi estenuanti portano l'organismo oltre la soglia in cui si attiva la produzione di endorfine. Le endorfine regolano la sensazione di fame e sono connesse alla produzione degli ormoni sessuali.

L'euforia descritta dalle persone che praticano BDSM è attribuita anch'essa alle endorfine. Una teoria che spiega perché alcune persone trovano piacevoli le attività connesse al BDSM è che esse stimolano le endorfine in modo controllato. Nel 1999 dei ricercatori medici hanno riferito che la stimolazione di determinati punti del corpo mediante agopuntura scatena la produzione di endorfine. Le endorfine regolano la sensazione di dolore, agendo come degli analgesici naturali. Dal punto di vista del BDSM le endorfine possono essere considerate delle sostanze chimiche simili agli oppiacei, prodotte naturalmente nel cervello in risposta al dolore, che possono bloccare il dolore e produrre una sensazione di euforia. L'euforia è causata da alti livelli di endorfine.

Le endorfine vennero scoperte per la prima volta nel 1975 da John Hughes e Hans Kosterlitz nel cervello di un maiale. Ad oggi il loro funzionamento non è ancora stato perfettamente compreso. Quel che è certo è che le endorfine si combinano ai recettori per gli oppioidi nel cervello. Esse disinibiscono i percorsi della dopamina, causando un aumento della sua secrezione nelle sinapsi. Il termine "endorfina" deriva dall'unione delle forme abbreviate di endogena morfina, ad indicare una sostanza simile alla morfina prodotta all'interno dell'organismo.

Il termine endorphin rush o "scarica di endorfina" è stata adottata nel linguaggio comune come riferimento ad una sensazione di euforia derivante da dolore, pericolo o altre forme di stress, causate presumibilmente dall'influenza delle endorfine. Quando un impulso doloroso proveniente da un nervo raggiunge il midollo spinale, le endorfine vengono rilasciate per impedire alle cellule dei nervi di inviare altri segnali di dolore. Subito dopo aver ricevuto una ferita, le endorfine permettono al soggetto di provare una sensazione di potere e controllo su di se che gli permette di continuare ad essere attivo per un certo periodo di tempo. Le attività BDSM, specialmente quelle che prevedono un certo grado di giochi sensoriali, spesso ricercano la scarica di endorfina come "ricompensa"  per il sub. Occorre prevedere attenzione particolare alla fase successiva al gioco, per evitare la fase "depressiva" o subdrop [conosciuta anche come endorphin crash, ndt] che potrebbe avvenire quando l'organismo ritorna alla condizione normale.

Un'applicazione attenta, metodica e corretta del dolore può permettere di innalzare la soglia del dolore, consentendo al bottom di tollerare livelli di sofferenza più elevati grazie ai benefici di più alti quantitativi di endorfine. Al bottom non sembrerà che il dolore stia aumentando, anche se lo starà facendo il grado di trauma fisico sul suo corpo. Questo perché all'aumentare del livello delle endorfine diminuisce quello del dolore.

Attenzione! L'attenuazione della sensazione di dolore non deve mai farvi perdere di vista il trauma fisico che state causando. Non prendete sottogamba la responsabilità per la sicurezza del vostro bottom solo perché l'euforia causata da un endorphin rush ha reso il vostro bottom un po' "frivolo".

Al fine di stimolare il rilascio delle endorfine, il top dovrebbe aumentare gradualmente il livello di dolore fino a quando questo non si avvicini alla soglia di sopportazione. Dopo aver raggiunto la soglia, l'intensità va diminuita per consentire alle endorfine rilasciate dal dolore di "compiere la loro magia", annullando il dolore.

Quando il top inizia di nuovo ad aumentare il dolore, le endorfine rilasciate dal ciclo precedente permettono al bottom di tollerarne un livello maggiore. Questo livello maggiore rilascerà ancora più endorfine, e il ciclo potrà ricominciare. Tieni presente che l'organismo impiega circa dieci minuti per generare le endorfine "utilizzabili" nel ciclo successivo; sarà necessario continuare a stimolarlo in qualche altro modo (per esempio con una fustigazione leggera) per almeno dieci minuti prima che sia pronto a rilasciare un'altra dose di endorfine.

La pazienza è fondamentale. Potranno presentarsi varie difficoltà che potrebbero scoraggiarti, ma non cedere! Tienile a mente, aspetta che si presentino e quando lo faranno modifica la tua "tecnica" finché non trovi quell'unica e particolare combinazione che funziona bene per te e il tuo bottom. A volte anche dei cambiamenti leggeri possono produrre risultati importanti.

A volte la soglia del dolore potrebbe raggiungere un plateau, e "rifiutarsi" di salire ulteriormente. Se accade questo potrebbe essere necessaria una interruzione completa delle "attività", per pochi minuti o per periodi più lunghi. Ogni bottom ha un punto oltre il quale neanche la migliore "tecnica" può portarli. Questo punto può variare da un giorno all'altro, e se il bottom ieri ha raggiunto un nuovo massimo non è detto che oggi lui o lei lo possa raggiungere di nuovo oggi. Se hai provato qualsiasi "tecnica" ti sia venuta in mente senza alcun risultato significa semplicemente che non è il giorno giusto. Prendila come viene.

Un altro problema comune è l'ipersensibilità, che può provocare un drastico e improvviso abbassamento della soglia del dolore. Se hai mai fatto un tatuaggio piuttosto grande sai come funziona. Stai giocando alla grande, il bottom è in pieno endorfine high e ti senti appagato e soddisfatto. Improvvisamente il bottom ti avverte di fermarti. Vi prendete una pausa ma, una volta che ricominciate, anche dei semplici buffetti sono troppo dolorosi. Cos'è successo?

L'ipersensibilità sembra presentarsi più spesso quando si sta "spingendo" troppo e troppo in fretta. Giocare proprio intorno alla soglia del dolore è fisicamente e mentalmente stressante, e alla lunga "logorerà" il bottom. Assicurati di avere molto tempo da dedicare al suo recupero durante le pause tra un gioco e l'altro.

Lo "sballo da endorfine" è una cosa che da molta soddisfazione, ma richiede un lavoro duro. Se non ci riesci dopo alcuni tentativi, non disperare. Anche un "giocatore" con molta esperienza ci mette del tempo ad "entrare in sintonia" con un nuovo bottom, e se oltretutto sei un BDSMer alle prime esperienze stai contemporaneamente imparando a conoscere le tecniche E il tuo bottom [quindi doppia fatica, ndt]. Lavora lentamente, sii determinato, e cerca di cogliere i piccoli segni positivi. Saranno questi piccoli segni a dirti cosa funziona meglio per il tuo bottom. Alla fine, con pazienza, ce la farai.

lunedì 27 gennaio 2014

Il giorno della memoria, again



Nei giorni appena trascorsi ho iniziato a leggere un libro, Le benevole di Jonathan Littell, del quale avevo sentito parlare parecchio tempo fa in non mi ricordo quale programma tv. Siccome sono ancora all'inizio del libro non posso dirvi se mi è piaciuto o no, però devo ammettere che ha sollevato in me un dubbio. Si tratta di uno di quei dubbi sopiti che tutti abbiamo e che ogni tanto si risvegliano, brevemente, prima di essere rimessi subito a nanna per paura di farci trascinare da loro chissà dove. Perché si tratta di interrogativi che ci vanno a toccare in quelle che sono le nostre zone grigie, i nostri ventri molli, che ci mettono di fronte a delle realtà che di solito preferiamo ignorare, perché potrebbero rivelare una parte di noi che non conosciamo o, peggio, che non vorremmo né conoscere né possedere.

Un luogo abbastanza comune è quello che dice che i gerarchi nazisti erano comunque buoni padri di famiglia. E infatti le loro porcate le facevano ai figli degli altri, mica ai loro - se escludiamo il buon Dott. Goebbels che, messo di fronte alla disfatta del Reich millenario, assieme alla moglie narcotizzò i suoi sei figli - tra i 4 e i 12 anni di età - prima di rompere una fiala di cianuro nelle loro bocche, e poi spararsi. E però in parte quest'affermazione è vera: non possiamo sbagliare come fecero i nazisti (e anche altri, se è per quello) e criminalizzare un intero popolo, è assurdo ritenere che tutti coloro i quali furono coinvolti direttamente o indirettamente nella "soluzione della questione ebraica" fossero completamente pazzi, psicopatici, maniaci omicidi. Sicuramente qualcuno c'era, come l'Amon Goeth comandante di campo di concentramento così fedelmente ritratto da Spielberg nel suo Schindler's List. Ma gli altri?

Le SS arrivarono ad essere quasi un milione. Un milione. Erano tutti sociopatici assassini? E quelli che vivevano vicino ai campi di concentramento, quelli che vedevano passare i treni, tutti quelli che sapevano e non hanno fatto niente? Ma siamo poi sicuri di essere tanto diversi da loro? Ho potuto ascoltare di persona i racconti di alcuni reduci delle "missioni di pace" italiane in Libano e Somalia, e - al di là delle spacconate di cui certo erano infarciti - ho notato in quei racconti un costante spregio per la vita umana altrui. Ma del resto ogni guerra (anche quelle camuffate da peacekeeping operation) è una questione di mors tua, vita mea, difficile poter pretendere diversamente.

Queste persone se fossero messe in condizione di dover ammazzare da sole un pollo o un vitello per cuocerne la carne diventerebbero vegetariani all'istante; ma mettetegli un FAL in mano e un insurgent armato di fronte, e vedrete se saprà premere il grilletto, come quel mitragliere di autoblindo che si è vantato di fronte a me di aver azzerato un villaggio somalo piuttosto che rischiare di saltare per aria. E giustamente, qualcuno di voi dirà sotto sotto. E allora provate a pensare di essere nella Germania del 1935, e di vedere i vostri vicini ebrei venire portati via. Vi opporreste? Scendereste in strada a protestare, magari col rischio di venire presi a vostra volta, e lasciare senza sostegno la vostra famiglia, i vostri figli, i vostri genitori? E se invece proprio a voi venisse ordinato di prendere e portare via i vostri vicini ebrei?

Queste mie parole non vogliono essere in assoluto, in nessun modo - se potessi lo griderei - una giustificazione per quanto è accaduto. Non me la sento di difendere gli aguzzini  e quelli che li hanno incoraggiati, voglio solo puntare il dito verso una di quelle zone grigie, come dicevo all'inizio, che a volte non sappiamo nemmeno di avere. E adesso buona lettura, e buona riflessione.


da Le benevole di Jonathan Littell (2006)

"(...) già da tantissimo tempo il pensiero della morte mi è più vicino della vena del collo, come dice quella bella frase del Corano. Se mai riusciste a farmi piangere, le mie lacrime vi sfregerebbero il viso come vetriolo. (...)

Poiché sulla terra vi è più dolore che piacere, ogni soddisfazione è solo transitoria, e crea nuovi desideri e nuove miserie, e la sofferenza della preda è più grande del piacere del predatore. Si, lo so, le citazioni sono due, ma l’idea è la stessa: in verità, viviamo nel peggiore dei mondi possibili. Certo, la guerra è finita. E poi abbiamo imparato la lezione, non accadrà più. Ma siete proprio sicuri che abbiamo imparato la lezione? Siete sicuri che non accadrà più? Siete sicuri, addirittura, che la guerra sia finita? Per certi versi la guerra non è mai finita, oppure sarà finita solo quando l’ultimo bambino nato l’ultimo giorno di combattimenti morirà di morte naturale, e anche allora continuerà, nei suoi figli e nei figli dei suoi figli, fino a quando finalmente l’eredità si diluisca un poco, i ricordi si sfilaccino e il dolore si attenui, anche se in quel momento tutti avranno dimenticato da un bel pezzo, e tutto sarà da tempo relegato fra le vecchie storie, buone nemmeno a spaventare i bambini, e ancor meno i bambini dei morti e di chi avrebbe desiderato esserlo, morto intendo dire.

Indovino cosa pensate: Ecco un uomo davvero malvagio, vi state dicendo, un uomo perfido, insomma, un farabutto sotto tutti gli aspetti, che dovrebbe marcire in prigione invece di infliggerci la sua confusa filosofia da ex fascista pentito a metà. Quanto al fascismo, non confondiamo tutto, e quanto alla mia responsabilità penale, non giudicate prematuramente, non ho ancora raccontato la mia storia; quanto alla mia responsabilità morale, consentitemi alcune considerazioni.

I filosofi politici hanno spesso fatto osservare che in tempo di guerra il cittadino, maschio perlomeno, perde uno dei suoi diritti più elementari, il diritto di vivere, e questo a partire dalla Rivoluzione francese e dall'invenzione della leva obbligatoria, principio ora universalmente ammesso, o quasi. Ma hanno raramente notato che questo cittadino perde al tempo stesso un altro diritto, altrettanto elementare e forse per lui ancor più vitale, per quanto riguarda l’idea che si fa di se stesso come uomo civilizzato: il diritto di non uccidere. Nessuno chiede il tuo parere. L’uomo in piedi sopra la fossa comune, nella maggior parte dei casi, non ha chiesto di trovarsi lì, proprio come chi giace, morto o morente, in fondo a quella medesima fossa.
Mi obietterete che uccidere un altro soldato in battaglia non è lo stesso che uccidere un civile disarmato; le leggi della guerra permettono la prima cosa, ma non la seconda; e così pure la morale comune. Un buon argomento in astratto, certo, ma che non tiene assolutamente conto delle condizioni del conflitto in questione.

La distinzione del tutto arbitraria stabilita dopo la guerra fra le «operazioni militari» da una parte, equivalenti a quelle di qualunque altro conflitto, e le «atrocità» dall'altra, perpetrate da una minoranza di sadici e di pazzi, è, come spero di dimostrare, un fantasma consolatorio dei vincitori - dei vincitori occidentali, dovrei precisare, perché i Sovietici, nonostante la loro retorica, hanno sempre capito di che cosa si trattasse: dopo il maggio 1945, e dopo le prime pantomime per fare un po’ di scena, Stalin se ne fregava totalmente di un’illusoria «giustizia», voleva roba solida, roba concreta, schiavi e macchine per rialzare la testa e ricostruire, non rimorsi o lamentazioni, poiché sapeva bene quanto noi che i defunti non sentono i pianti e che i rimorsi non sono mai serviti ad arricchire la zuppa.

Non difendo il Befehlsnotstand, l’obbligo di obbedire agli ordini tanto apprezzato dai nostri bravi avvocati tedeschi. Ciò che ho fatto, l’ho fatto con piena cognizione di causa, pensando che si trattasse del mio dovere e che dovesse essere fatto, per quanto sgradevole e increscioso fosse. La guerra totale è anche questo: il civile non esiste più, e tra il bambino ebreo gasato o fucilato e il bambino tedesco morto sotto le bombe incendiarie c’è soltanto una differenza di strumenti; quelle due morti erano altrettanto inutili, nessuna delle due ha abbreviato la guerra, neppure di un secondo; ma in entrambi i casi l’uomo o gli uomini che li hanno uccisi credevano che fosse giusto e necessario; se hanno avuto torto, a chi dare la colpa? (...)

Ciò vale anche per il caso in cui un uomo appoggi il fucile al cranio di un altro uomo e tiri il grilletto. Poiché la vittima è stata portata lì da altri uomini, la sua morte è stata decisa da altri ancora, e anche chi spara sa di essere soltanto l’ultimo anello di una lunghissima catena, e di non doversi porre più domande del membro di un plotone che nella vita civile giustizia un uomo debitamente condannato dalla legge.
Chi spara sa che è un caso che sia lui a sparare, che un commilitone faccia parte del cordone di sicurezza mentre un terzo guida il camion. Tutt'al più potrà tentare di scambiarsi di posto con la guardia o con l’autista.

Un altro esempio, tratto dall'abbondante letteratura storica più che dalla mia personale esperienza: il programma di sterminio delle persone affette da handicap grave e dei malati di mente tedeschi, il cosiddetto programma «Eutanasia» o «T-4», istituito due anni prima del programma «Soluzione finale». In questo caso, i malati selezionati nel quadro di un dispositivo legale erano accolti in un edificio da infermiere professionali che li registravano e li spogliavano; dei medici li esaminavano e li accompagnavano in una stanza sigillata; un operaio somministrava il gas; altri ripulivano; un poliziotto redigeva il certificato di morte.

Interrogati dopo la guerra, ognuno di loro dice: Colpevole, io? L’infermiera non ha ucciso nessuno, si è limitata a spogliare e tranquillizzare degli ammalati, gesti comuni della sua professione. Nemmeno il medico ha ucciso, ha semplicemente confermato una diagnosi secondo criteri stabiliti da altre istanze. L’operaio che apre il rubinetto del gas, quindi colui che è più vicino all’omicidio nel tempo e nello spazio, svolge una funzione tecnica sotto il controllo dei suoi superiori e dei medici. Gli operai che sgomberano la stanza compiono un necessario lavoro di bonifica, per di più assai ripugnante.

Il poliziotto segue la sua procedura, che è quella di constatare un decesso e annotare che ha avuto luogo senza violazione delle leggi in vigore. Chi dunque è colpevole? Tutti o nessuno? Perché l’operaio addetto al gas sarebbe più colpevole dell’operaio addetto alle caldaie, al giardino, ai veicoli? Lo stesso vale per tutte le sfaccettature di quell’immensa impresa. Chi manovra gli scambi della ferrovia, per esempio, è forse colpevole della morte degli ebrei che ha avviato verso un campo di concentramento? Quell'operaio è un funzionario, fa lo stesso lavoro da vent'anni, convoglia i treni in base a un piano, non è tenuto a sapere che cosa contengono. Non è colpa sua se quegli ebrei sono trasportati da un punto A, attraverso il suo scambio, a un punto B dove vengono uccisi.

Eppure quell'operaio svolge un ruolo cruciale nel lavoro di sterminio: senza di lui il treno di ebrei non può giungere al punto B. Lo stesso vale per il funzionario incaricato di requisire appartamenti per i senzatetto vittime dei bombardamenti, per il tipografo che prepara gli avvisi di deportazione, per il fornitore che vende cemento o filo spinato alle SS, per il sottufficiale del genio che fornisce benzina a un Teilkommando della SP, e per Dio, lassù, che permette tutto questo.

Ovviamente, si possono definire livelli di responsabilità penale relativamente precisi, che permettano di condannare certuni e lasciare tutti gli altri alla loro coscienza, sempre che ne abbiano una; è tanto più facile quando si redigono le leggi dopo i fatti, come a Norimberga. Ma anche in quel caso ci si è mossi un po’ a casaccio. Perché impiccare Streicher, quel bifolco impotente, ma non il sinistro von dem Bach-Zelewski? Perché impiccare il mio superiore, Rudolf Brandt, e non il suo, Wolff? Perché impiccare il ministro Frick e non il suo sottoposto Stuckart, che faceva tutto il lavoro per lui? (...) Ancora una volta, siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o di quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione, comunque in un modo o nell'altro.

Penso che mi sia permesso concludere come un fatto assodato dalla storia moderna che tutti, o quasi, in un dato complesso di circostanze, fanno ciò che viene detto loro di fare; e, scusatemi, non ci sono molte probabilità che voi siate l’eccezione, non più di me. Se siete nati in un paese o in un epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace.

Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui incomincia il pericolo. Ci si compiace di contrapporre lo Stato, totalitario o meno, all'uomo comune, cimice o giunco. Ma così si dimentica che lo Stato è fatto di uomini, tutti più o meno comuni, ognuno con la propria vita, la propria storia, la serie di casualità che hanno fatto sì che un giorno si ritrovasse dalla parte giusta del fucile o del foglio di carta mentre altri si ritrovavano da quella sbagliata.

Dire che la grande maggioranza di quanti hanno gestito le procedure di sterminio non erano dei sadici o degli anormali è un luogo comune, adesso. Di sadici, di pazzi, ce ne sono stati, ovviamente, come in tutte le guerre, e hanno commesso atrocità indicibili, è vero. Ed è altrettanto vero che le SS avrebbero potuto intensificare gli sforzi per controllare quella gente, anche se hanno fatto più di quanto non si pensi abitualmente; e non è un’ovvietà: andate a chiederlo ai generali francesi, avevano un bel po’ di grane, in Algeria, con i loro alcolizzati, violentatori, assassini di ufficiali.

Ma non è questo il problema. Di pazzi ce ne sono ovunque, sempre. I nostri tranquilli sobborghi pullulano di pedofili e psicopatici, i dormitori pubblici di maniaci megalomani: certi diventano effettivamente un problema, uccidono due, tre, dieci, addirittura cinquanta persone - poi quello stesso Stato che si servirebbe di loro senza batter ciglio in una guerra li schiaccia come zanzare gonfie di sangue. Quegli uomini malati non sono niente. Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato - soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero pericolo per l’uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti, inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me. Come la maggior parte della gente, non ho mai chiesto di diventare un assassino.

Se avessi potuto, l’ho già detto, mi sarei occupato di letteratura."

sabato 25 gennaio 2014

In ricordo di A.

Pubblico qui di seguito un mio brano che ho recuperato da un sito che ho abbandonato, per cui può essere che qualcuno di voi lo abbia già letto.


In ricordo di A.
di Syuzee, maggio 2012

Sarà stato il 1984 o il 1985. Rincasavo dal liceo, verso mezzogiorno, e il percorso mi portava a incrociare la mia vecchia scuola elementare. Quel giorno di primavera ti vidi per la prima volta, mentre due ragazzini, due bulletti, ti stavano dando il tormento. Eri magrolino, biondiccio, pallido e lentigginoso, un tipico nerd insomma, di quelli che è un piacere torturare.

Due contro uno, proprio una bella cosa; e lo so bene, perché sarà successa anche a me almeno un milione di volte. E mai nessuno a darmi una mano, a soccorrermi: i bulli sono vigliacchi ma furbi, sanno scegliere bene il momento. Ma non quella volta, infatti passai io.

Non ricordo cosa dissi, ma minacciai, fisicamente e verbalmente; i due bulletti si presero una bella strizza, mollarono il colpo e sparirono come razzi. Non mi sembrava vero. Tornammo a casa insieme, con sorpresa ci accorgemmo di fare la stessa strada perché tu da poco eri venuto ad abitare nel mio cortile, e io ancora non lo sapevo.

Ci conoscemmo così, mentre tu mi camminavi a fianco con un sorriso timido e un po' triste, come se ti sentissi predestinato ad essere vittima dei prepotenti, una sensazione in parte mitigata dalla soddisfazione di avere finalmente un "amico grande", una sorta di fratello maggiore temporaneo (tu eri figlio unico) che almeno per una volta ti aveva salvato il culo.
E io mi sentivo bene per averti evitato qualcosa che, per le troppe esperienze personali identiche, sapevo essere molto sgradevole. Il dubbio di aver fatto male non mi ha mai sfiorato, in tutti questi anni.

Capitò qualche volta di rivederci brevemente in cortile, ma avevamo troppi anni di differenza e poi io ormai non giocavo più. Non ci incrociammo più fuori dalla scuola, e spero che i bulletti abbiano smesso di darti fastidio, anche se so che si tratta di una beata speranza.

Eri sempre più pallido. Mia mamma, che parlava con la tua, mi disse che ti era venuto un tumore alle ossa. Dovettero amputarti una gamba per cercare di salvarti; in cambio i tuoi genitori ti regalarono una motocicletta, un cinquantino da cross (eri ancora minorenne) su cui stavi correndo, felice, l'ultima volta che ti vidi. Una moto, lo so, non è la giusta ricompensa per la perdita di una gamba a quindici anni, ma per te andava bene lo stesso; lo si capiva da quel sorriso timido e un po' triste che avevo imparato a conoscere, e che si vedeva sul tuo viso magro e pallido.

Quando te ne andasti tua madre non lo disse a nessuno. Nessuno andò al funerale (se poi si fece), e tu fosti cremato in fretta. Ricordo ancora lo sgomento di quando lo venimmo a sapere, dopo che tutto era successo. Questione di scelte, più passa il tempo e più mi convinco che tua madre fece bene a fare così, ma non voglio spiegarne adesso il motivo. Questione di scelte, basta e avanza.

Non ho mai trovato il coraggio di raccontare a tua mamma di quella volta che ci siamo conosciuti, non ho voluto che sapesse che i tuoi compagni ti davano addosso, anche se forse se lo immaginava lo stesso. Ne ha avute abbastanza, tra la perdita dell'unico figlio e il quasi automatico divorzio subito dopo, come capita tante volte in questi casi.

Però, quando ripenso a quel giorno di primavera, a quell'unica volta in cui ho evitato un torto di quel genere, continuo a ripetermi di aver fatto bene anche se alla fin fine non è servito a niente, forse solo a me.