mercoledì 16 febbraio 2011

Il sangue di Dresda


Il 13 e 14 febbraio ricorreva un anniversario che - a differenza del giorno della memoria - è passato ignoto ai più.

E' innegabile che la storia la scrivono i vincitori. Ricordo che, da bambino, giocavo coi soldatini (arrossisco al pensiero) e i tedeschi non vincevano mai. Un mio caro amico mi ha detto che anche lui faceva lo stesso; ci sembrò una cosa normale, e però quelli erano stati nostri alleati... Ricordo anche che, sempre da bambino, una volta a tavola entrammo in argomento, e mio nonno mi disse ringhiando che i tedeschi ci avevano aiutato a combattere per il nostro paese. Rimasi di sasso, perchè pensavo che i tedeschi fossero i cattivi, e all'epoca le mie capacità critiche a riguardo erano a zero. 

Certo, la Storia è un tantinello più complicata di così, e ovviamente non mi sento di sottoscrivere la tesi di mio nonno; eppure nelle guerre non c'è mai una parte completamente a ragione e una completamente a torto. E, ad ogni modo, la guerra è una tragedia corale che colpisce tuttti i popoli coinvolti, nessuno escluso.

Il 13 e 14 febbraio 1945 la città tedesca di Dresda venne rasa al suolo dai bombardieri alleati. Per aiutarvi a capire il senso di queste parole riporto di seguito un testo di Kurt Vonnegut, uno dei miei autori preferiti in assoluto, initolato Il sangue di Dresda. Adoro Vonnegut perchè lo considero un po' l'Italo Calvino americano, leggero ma profondo, divertente ma serio. Vi consiglio due libri su tutti: "Dio la benedica, signor Rosewater!" e "Galapagos."

Nel testo che vi propongo (la traduzione non è mia) non c'è però niente di divertente. C'è quà e la dell'ironia, ma amara. Vonnegut ebbe la "fortuna" di trovarsi, come prigioniero di guerra, a Dresda durante quel bombardamento. Narrò la sua esperienza nel racconto che state per leggere, che non venne però mai dato alle stampe (e capisco perfettamente perché). Fu per fortuna ritrovato dal figlio dopo la morte dello scrittore nel 2007.

Se volete leggere il testo nella lingua originale lo trovate qui.

Se, dopo aver letto le parole, volete vedere qualche immagine, guardate qui. Attenzione perché non è niente di bello.

Il sangue di Dresda
di Kurt Vonnegut
traduzione di Andrea Carancini
(più qualche aggiuntina mia)

Era un discorso di routine quello che sentimmo il primo giorno del nostro addestramento base, fatto da un piccolo tenente muscoloso: “Soldati, finora siete stati dei buoni, gentili, ragazzi americani con la tipica passione americana per la sportività e il fair play. Siamo qui per cambiare questa cosa.

"Il nostro compito è fare di voi il più sporco e cattivo mucchio di bastardi della storia del mondo. D’ora in avanti, scordatevi le regole della Marchesa del Queensberry o qualsiasi altra. Tutto è permesso.

“Non colpite mai un uomo sopra la cintura quando potete colpirlo sotto. Fate urlare il bastardo. Uccidetelo ogni volta che potete. Uccidete, uccidete, uccidete – avete capito?".

Il suo discorso venne accolto con risate nervose e con l’idea generale che aveva ragione. “Hitler e Tojo non hanno forse detto che gli americani erano un mucchio di debolucci? Ha! Lo scopriranno.”

E naturalmente la Germania e il Giappone lo scoprirono: una democrazia indurita tirò fuori una furia ribollente che non poteva essere fermata. In apparenza fu una guerra tra la ragione e la barbarie, con questioni in gioco talmente alte che i nostri scatenati combattenti non avevano idea del perché stessero combattendo – oltre a ciò i nemici erano un mucchio di bastardi. Era un nuovo tipo di guerra, in cui era approvata ogni distruzione, ogni uccisione.

Molti approvarono l’idea della guerra totale: essa aveva a disposizione un ring moderno, al passo con la nostra tecnologia spettacolare. Per costoro era come una partita di football.

(Tornato a casa, in America), tre mogli di negozianti di una piccola città, grassocce e di mezza età, mi diedero un passaggio mentre facevo l’autostop per tornare a casa da Camp Atterbury. “Hai ucciso molti tedeschi?”, chiese la conducente, facendo graziosa conversazione. Le dissi che non lo sapevo.

Ciò venne preso per modestia. Mentre uscivo dalla macchina, una delle signore mi diede un buffetto sulla spalla, in modo materno: “Scommetto che vorresti farla finita e uccidere adesso qualcuno di quegli sporchi giapponesi, non è vero?”

Ci scambiammo una strizzatina d’occhio. Non dissi a quelle anime semplici che ero stato catturato al fronte dopo una settimana; e soprattutto quello che sapevo, e che pensavo, sull’uccidere gli sporchi tedeschi, sulla guerra totale. La ragione della mia amarezza, allora e adesso, ha a che fare con un incidente che ebbe un’attenzione superficiale dai giornali americani. Nel Febbraio del 1945, Dresda, in Germania, venne distrutta, e con essa oltre 100.000 esseri umani. Io ero lì. Non molti sanno quanto fu brutale, l’America.

Ero in un gruppo di 150 soldati di fanteria, catturati durante lo sfondamento nelle Ardenne e messi a lavorare a Dresda. Dresda, ci venne detto, era la sola città tedesca importante a essere finora scampata ai bombardamenti. Era il Gennaio del 1945. Doveva il suo destino benigno alla sua fisionomia pacifica: ospedali, fabbriche di birra, fabbriche di alimentari, aziende di forniture sanitarie, ceramiche, fabbriche di strumenti musicali, e così via.

Da quando era iniziata la guerra, gli ospedali erano diventati il suo primo impegno. Ogni giorno giungevano in questo tranquillo rifugio centinaia di feriti, da est e da ovest. Di notte, sentivamo il rombo monotono di lontani raid aerei. “Chemnitz è sotto tiro stanotte”, dicevamo tra noi, e giocavamo a metterci nei panni dei giovani uomini brillanti, con i loro quadranti e i loro mirini.

“Grazie a Dio stiamo in una “città aperta”, pensavamo, e così pensavano i migliaia di profughi – donne, bambini e anziani, che affluivano derelitti dalle rovine fumanti di Berlino, Lipsia, Braslau, Monaco. Inondavano la città fino al doppio della sua popolazione normale.

Non c’era guerra a Dresda. E’ vero, gli aerei arrivavano quasi ogni giorno e le sirene ululavano, ma gli aerei andavano sempre altrove. Gli allarmi fornivano un momento di sollievo in una noiosa giornata di lavoro, un’occasione di socialità, la possibilità di spettegolare nei rifugi antiaerei. I rifugi, in realtà, non erano molto più di un gesto, del riconoscimento casuale dell’emergenza nazionale, cantine di vini e seminterrati con banchi e sacchetti di sabbia che bloccavano le finestre, per lo più. C’erano pochi bunker all’altezza, nel centro della città, vicini agli uffici governativi, ma niente di paragonabile alla fidata piazzaforte sotterranea che rendeva Berlino indifferente al suo martellamento quotidiano. Dresda non aveva ragione di prepararsi a un attacco – c’è una storia al riguardo.

Dresda era sicuramente tra le città più deliziose del mondo. Le sue strade erano ampie, fiancheggiate da alberi ombrosi. Era cosparsa da innumerevoli piccoli parchi e statue. Aveva vecchie chiese meravigliose, biblioteche, musei, teatri, gallerie d’arte, giardini, uno zoo e un’università rinomata.

Era anche un paradiso per i turisti. Sarebbero molto più informati di me sulle bellezze della città. Ma l’impressione che ho è che a Dresda – nella sua presenza fisica – vi fossero i simboli della vita buona: era piacevole, onesta, intelligente. Questi simboli stavano ad aspettare, all’ombra della svastica, come monumenti alla verità. Come un tesoro accumulatosi in centinaia di anni, Dresda esprimeva in modo eloquente l’eccellenza della civiltà europea, di cui nel profondo siamo debitori.

Ero un prigioniero, affamato, sporco, e pieno di odio per chi ci aveva catturato, ma amavo questa città, e vedevo la meraviglia benedetta del suo passato e la ricca promessa del suo futuro.

Nel Febbraio del 1945, i bombardieri americani ridussero questo tesoro in pietre frantumate e carboni ardenti; la sventrarono con esplosivi ad alto potenziale e con bombe incendiarie.

La bomba atomica può rappresentare un progresso favoloso, ma è interessante notare come il tritolo e la termite riuscissero a sterminare in una sola notte sanguinosa più persone di quante ne morirono in tutto il blitz di Londra. La piazzaforte di Dresda esplose una dozzina di colpi contro i nostri aviatori. Una volta rientrati alla base e sorbendo una tazza di caffè, probabilmente dissero: “Una contraerea insolitamente leggera stanotte. Bene, immagino che è ora di andare a letto”. I piloti inglesi catturati dalle unità tattiche di combattimento (che coprivano le truppe in prima linea) rimproveravano quelli che avevano guidato i bombardieri pesanti nei raid sulle città con: “Come diavolo avete sopportato la puzza dell’urina bollente e delle carrozzine bruciate?”

Ecco un frammento di notizia di assoluta routine: “La notte scorsa i nostri aerei hanno attaccato Dresda. Tutti gli aerei sono ritornati incolumi”. Il solo tedesco buono è il tedesco morto: oltre 100.000 uomini, donne e bambini malvagi (quelli abili erano al fronte) hanno scontato per sempre i loro peccati contro l’umanità. Per caso, incontrai un bombardiere che aveva preso parte all’attacco”. “Odiammo farlo”, mi disse.

La notte che arrivarono, la passammo nel ripostiglio di carne sotterraneo di un mattatoio. Fummo fortunati, perché era il miglior rifugio della città. I giganti percorrevano la terra sopra di noi. All’inizio venne il mormorio leggero della loro danza sopra le periferie, poi il brontolio della loro avanzata verso di noi, e infine il fragore assordante dei loro passi sopra di noi; e da lì di nuovo sulle periferie. Dilagavano avanti e indietro: era il bombardamento a saturazione.

“Urlavo e piangevo e mi aggrappavo ai muri del nostro rifugio”, mi disse una vecchia signora. “Pregavo Dio dicendo: “Ti prego, ti prego, ti prego, buon Dio, fermali”. Ma non mi ascoltava. Nessuna forza poteva fermarli. Arrivavano, ondata dopo ondata. Non c’era possibilità di arrenderci; né di dire loro che non ce la facevamo più. Non c’era nient’altro da fare che stare seduti e aspettare il mattino”. Sua figlia e suo nipote rimasero uccisi.

La nostra piccola prigione fu incenerita dalle fondamenta. Dovemmo essere evacuati in un campo lontano occupato da prigionieri sudafricani. I nostri guardiani erano un mucchio di Volkssturmer (appartenenti alla milizia civile, ndt) tristi e attempati e di veterani invalidi. La maggioranza erano cittadini di Dresda e avevano amici e famiglie coinvolti nell’olocausto. Un caporale, che aveva perso un occhio dopo due anni sul fronte russo, aveva appreso prima che partissimo che sua moglie, i suoi due figli, ed entrambi i genitori erano stati uccisi. Aveva una sigaretta. La divise con me.

La nostra marcia verso i nuovi quartieri ci portò al confine della città. Era impossibile credere che qualcuno in centro fosse sopravvissuto. In circostanze normali, il giorno sarebbe stato freddo, ma folate saltuarie dall’inferno colossale ci facevano sudare. E, in circostanze normali, il giorno sarebbe stato chiaro e luminoso, ma una nube opaca e opprimente aveva trasformato il giorno in crepuscolo.

Una sinistra processione ostruiva le vie d’uscita; persone con facce annerite solcate da lacrime, qualcuno che portava dei feriti, altri dei morti. Si raccolsero nei campi. Non parlava nessuno. Qualcuno, con la fascia della Croce Rossa, faceva quello che poteva per le vittime.

Raggruppati con i sudafricani, passammo una settimana senza lavorare. Alla fine, vennero ristabiliti i contatti con il comando e ci venne ordinato di percorrere sette miglia verso la zona colpita più duramente.

Nel distretto nulla era scampato alla furia. Una città di edifici ridotti a gusci frastagliati, di statue frantumate, di alberi spaccati; ogni veicolo era immobile, rugoso e bruciato, ridotto ad arrugginire o a marcire dal passaggio della forza furibonda. I soli suoni oltre ai nostri erano quelli dell’intonaco che cadeva e delle sue eco.

Non posso descrivere la desolazione in modo adeguato, ma posso dare un’idea di come ci faceva stare, con le parole di un soldato inglese che delirava in un ospedale di fortuna per prigioneri: “Ti dico che è spaventoso. Camminavo in una delle loro strade insanguinate e sentivo mille occhi dietro di me, quelli dei morti. Li sentivo sussurrare dietro di me. Mi giravo a guardarli e non c’era un anima. Li puoi sentire e li puoi ascoltare ma non c’è mai nessuno, lì”. Sapevamo che quello che diceva era vero.

Per il lavoro di “salvataggio” fummo divisi in piccoli gruppi, ognuno con un guardiano. Il nostro macabro compito era di cercare i corpi. Fu una caccia abbondante, quel giorno e gli altri che seguirono. Iniziammo su scala ridotta – qui una gamba, lì un braccio, e un neonato occasionale – ma scoprimmo un filone importante prima di mezzogiorno.

Ci facemmo strada attraverso un muro seminterrato per scoprire un guazzabuglio puzzolente di oltre 100 esseri umani. Doveva essere penetrato il fuoco prima che il crollo dell’edificio ostruisse le uscite, perché la carne di quelli che stavano dentro ricordava la consistenza delle prugne. Il nostro compito, ci venne spiegato, era di farci strada in mezzo al disastro e di portare via i resti. Incoraggiati da sberle e insulti, ci mettemmo al lavoro. Facemmo esattamente questo, perché il pavimento era ricoperto da una brodaglia nauseabonda fatta di condutture bruciate e di viscere.

Un certo numero di vittime, non completamente morte, avevano cercato di scappare attraverso una stretta uscita di emergenza. C’erano comunque diversi corpi intrappolati nel passaggio. Il loro leader aveva percorso metà strada prima di venire seppellito fino al collo dai mattoni e dall’intonaco caduti. Penso che avesse circa 15 anni.

E’ con un certo rammarico che infango la reputazione dei nostri aviatori ma, ragazzi, avete ucciso una quantità spaventosa di donne e bambini. Dovemmo riesumare i loro corpi e portarli in pire funerarie di massa.

La tecnica della pira funeraria venne abbandonata quando si scoprì quanto era grande il numero dei morti. Non c’era sufficiente manodopera per realizzarla bene, così venne mandato giù un uomo con un lanciafiamme, affinché li cremasse dove si trovavano. Bruciati vivi, soffocati, schiacciati – uomini, donne e bambini uccisi indistintamente.

Con tutta l’elevatezza della causa per la quale combattevamo, creammo di sicuro la nostra Belsen. Il metodo era impersonale ma il risultato fu egualmente crudele e spietato. Questa, temo, è la ripugnante verità.

Quando ci abituammo all’oscurità, al fetore e al carnaio, iniziammo a chiederci chi era stato, ognuno di quei cadaveri, quando era ancora vivo. Era un gioco sordido: “Ricco, povero, mendicante, ladro…” Qualcuno aveva borsette gonfie e gioielli, altri avevano preziose cose da mangiare. Un bambino aveva il suo cane al guinzaglio ancora vicino a lui.

Del nostro lavoro, nei rifugi veri e propri, erano responsabili degli ucraini rinnegati in uniforme tedesca. Erano ubriachi fradici per via delle cantine adiacenti e sembravano godere enormemente del loro compito. Era redditizio, perché strappavano a ogni corpo gli oggetti di valore prima che li portassimo sulla strada. La morte era diventata un tale luogo comune che potevamo scherzare sui nostri lugubri fardelli e sceglierli in mezzo a così tanta spazzatura.

Non fu così con i primi, specialmente i giovani: li avevamo messi sulle barelle con cura, deponendoli con una certa parvenza di dignità funebre nel loro ultimo luogo di riposo prima della pira. Ma il nostro ritegno spaventato e doloroso cedette, come ho detto, al cinismo vero e proprio. Alla fine di un giorno orribile, fumammo e contemplammo l’impressionante mucchio di morti che si era accumulato. Uno di noi gettò il mozzicone della sua sigaretta sul mucchio: “Le campane dell’inferno”, disse, “Sono pronto per la Morte ogni volta che voglia venire a prendermi”.

Pochi giorni dopo il raid, le sirene urlarono di nuovo. Ai sopravvissuti apatici e affranti vennero gettati dei volantini. Ho perso la mia copia del proclama ma ricordo che diceva pressappoco così: “Al popolo di Dresda: siamo stati costretti a bombardare la vostra città a causa del pesante traffico militare che le vostre installazioni ferroviarie stavano sostenendo. Ci rendiamo conto di non aver sempre colpito i nostri obbiettivi. La distruzione di ogni altra cosa rispetto agli obbiettivi militari appartiene alle vicende della guerra involontarie e inevitabili”.

Questo spiegava il massacro per la soddisfazione di tutti, ne sono sicuro, ma suscitò non poco disprezzo. E’ un fatto che 48 ore dopo che l’ultimo B-17 era sciamato verso ovest per un meritato riposo, i battaglioni dei genieri giunsero presso le ferrovie danneggiate e le riportarono ad un’attività quasi normale. Nessuno dei ponti ferroviari sull’Elba fu messo fuori uso. I fabbricanti dei dispositivi di puntamento dovrebbero arrossire nell’apprendere che i loro meravigliosi congegni sganciavano le bombe fino a tre miglia fuori bersaglio rispetto a quello che l’esercito affermava di voler colpire.

Il volantino avrebbe dovuto dire: “Abbiamo colpito tutte le chiese, gli ospedali, i musei, i teatri, la vostra università, lo zoo, e ogni edificio civile in città, ma onestamente non volevamo. C’est la guerre. Ci dispiace molto. Inoltre, il bombardamento a saturazione è molto di moda questi giorni, lo sapete”.

C’era un significato tattico: fermare le ferrovie. Un’operazione eccellente, non c’è dubbio, ma la tecnica fu orribile. Gli aerei iniziarono a lanciare dai loro scompartimenti bombe incendiarie e ad alto potenziale ai confini della città, e per tutta la sequenza dei loro colpi devono essere stati istruiti da una tavola Ouija.

Provate a classificare le perdite contro i benefici. Oltre 100.000 civili e una magnifica città distrutti da bombe sganciate fuori degli obbiettivi dichiarati: le ferrovie furono messe fuori uso per circa due giorni. I tedeschi contarono la più grande perdita di vite patita per ogni singolo raid. La morte di Dresda fu un’amara tragedia, attuata in modo gratuito e premeditato. L’uccisione dei bambini – bambini tedeschi o giapponesi, o quelli di qualsiasi nemico il futuro possa riservarci – non può mai essere giustificata.

La replica scontata ai miei lamenti è il più odioso di tutti i clichés: “è la guerra”, oppure: “Se la sono cercata. Tutto quello che capiscono è la forza”.

Chi è che se l’è cercata? Tutto quello che capiscono è la forza? Credetemi, non è facile identificare i campi dove crescono i frutti dell’ira quando si raccolgono neonati nei canestri o si aiuta un uomo a scavare dove pensa si possa trovare la moglie. Certo, l’esercito nemico e le installazioni industriali devono essere colpite tranquillamente, e guai a quelli abbastanza sciocchi da cercare rifugio nei paraggi. Ma la politica dell’ "America inflessibile”, lo spirito di vendetta, l’approvazione di ogni distruzione e di ogni delitto, ci hanno guadagnato la nomea di una brutalità oscena.

I nostri leader hanno avuto carta bianca su quello che potevano o non potevano distruggere. Il loro compito era di vincere la guerra il più rapidamente possibile, e mentre furono mirabilmente istruiti ad agire in tal modo, le loro decisioni sul destino di certi cimeli inestimabili del pianeta – come nel caso di Dresda – non furono sempre assennate. Quando, alla fine della guerra, con la Wehrmacht che andava in pezzi su tutti i fronti, i nostri aerei furono mandati a distruggere quest’ultima città importante, dubito che sia stata posta la domanda: “Che vantaggi abbiamo avuto da questa tragedia, e come reggeranno al confronto questi vantaggi con gli effetti negativi nel lungo periodo?”

Dresda, una magnifica città, costruita nello spirito dell’arte, simbolo di un retaggio ammirevole, così antinazista che Hitler la visitò solo due volte durante il suo regno, un centro oggi così amaramente bisognoso di cibo e di ospedali – venne arata e i solchi furono cosparsi di sale.

Non vi può essere dubbio che gli alleati abbiano combattuto dalla parte giusta, e i tedeschi e i giapponesi dalla parte sbagliata. La seconda guerra mondiale è stata combattuta per motivi quasi sacri. Ma rimango convinto che per la spada della giustizia con la quale abbiamo combattuto, i bombardamenti indiscriminati delle popolazioni civili sono stati blasfemi. Che il nemico li abbia effettuati per primo, non ha niente a che fare con il problema morale. Quello che ho visto della nostra guerra aerea, mentre il conflitto europeo stava per finire, ha avuto il marchio irrazionale della guerra per la guerra. Delicati cittadini della democrazia americana hanno imparato a colpire un uomo sotto la cintura e a far urlare il “bastardo”.

Le truppe russe di occupazione, quando scoprirono che eravamo americani, ci abbracciarono e si congratularono per la rovina totale portata dai nostri aerei. Accettammo i loro complimenti con buona grazia e compunta modestia, ma sentivo allora, come sento ora, che avrei dato la vita per salvare Dresda per le generazioni future. Questo è quello che ognuno dovrebbe provare per ogni città del pianeta.

Impression: soleil levant


E’ l’alba. Esco dal cancelletto di casa e volto a destra lungo il marciapiede. La macchina è parcheggiata lì vicino, la fiancata argentea è illuminata dai primi raggi di un sole pallido ma che promette bene. Mi avvicino, con le chiavi in mano, e all’improvviso ho un’impressione. Che cerco di scacciare, subito. Ma rimane. Mi avvicino alla portiera posteriore, passo prima il polpastrello, poi l’unghia, e l’impressione diventa certezza. E’ un’ammaccatura.

E’ proprio un’ammaccatura. Ieri non c’era. Ne sono certa, scientificamente, matematicamente certa: ieri ho ritirato la macchina dal carrozziere, la fiancata era nuova di pacca, mi è costata cinquecento euri del mio sangue, un euro al giorno messo da parte per cinquecento giorni. E adesso è ammaccata. E non sono passate neanche ventiquattr’ore. Un bel record, non c’è che dire. Cazzo. No, non proprio “cazzo”. Sono veneta per un quarto, la bestemmia fa parte del mio patrimonio genetico, e me ne nasce una, poderosa, proprio dal cuore. Mi vergogno un po’ ad ammetterlo, ma è così.

L’ammaccatura è di quelle tipiche da gran sportellata della macchina a fianco. Bel segno profondo, esattamente al centro della portiera, la vernice è saltata via lasciando un piccolo cratere. Richiama lo sguardo. Non la tiri più via, tocca verniciarla un’altra volta, e cinquecento euri non li voglio più tirare fuori. Cazzo. Vabbè, anche stavolta non proprio “cazzo”, eccetera eccetera.

Nella mia testa inizia l’indagine per individuare il colpevole. Osservo il posto vuoto accanto al mio e mi chiedo: chi c’era ieri sera parcheggiato qui? Mentre cerco nella memoria guardo le macchie d’olio sull’asfalto, e penso che se ci fosse qui Grissom ne prenderebbe subito un campione, farebbe il calco delle tracce delle gomme, magari raccatterebbe anche uno o due mozziconi che non si sa mai.

Frullerebbe il tutto, lo metterebbe dentro il fotospettrometro molecolare e in due minuti mi darebbe nome e cognome del bastardo. Come no. Anche se sono soprapensiero il mio sguardo chiama vendetta e omicidio, le macchie d’olio se ne accorgono e iniziano a sentirsi minacciate, vorrebbero scappare ma sono lì incollate alla strada e non possono.

Allora. Era una Peugeot 206 blu scuro metallo. Non era quella tre porte, altrimenti sarebbe stata della tipa della palazzina di fronte, secondo piano. Era cinque porte. Era di quello della palazzina di dietro, pianterreno. Il mio vicino di giardino.

Quello soprannominato lo psicopatico, che d’estate con le finestre aperte lo si sente un giorno sì e l’altro pure mentre grida insulti contro la moglie e la figlia. D'inverno è uguale, ma con le finestre chiuse lo senti solo se ti trovi per caso nella sua tromba delle scale. Quello che passa tutti i sabati e le domeniche a seminare, innaffiare, concimare e tosare il suo prato inglese, che ama più di sua figlia tant’è vero che lei non ha il permesso di giocarci sopra. Quello che alle riunioni di condominio ogni occasione è buona per attaccare briga. Quello.

Vado in ufficio, sono nervosa come una belva, ma pian piano col lavoro mi distraggo e mi passa. Però. Però qualcosa mi sta lavorando dentro. Di nascosto, come un fiume di lava sotterraneo, che scava la roccia piano piano ma in maniera inesorabile. La sera, sulla strada del ritorno, provo una strana sensazione di irrequietezza. Qualche giorno dopo tornando a casa, parcheggio sull’altro lato della strada. Spengo la macchina, scendo, e me la trovo davanti. La Peugeot blu scuro cinque porte del bastardo.

E’ lì, tranquilla e ignara del destino che la attende. Guardo la portiera blu che ha assassinato la mia, argento. Ovviamente nessuno si è fatto vivo, non dico per risarcire il danno ma almeno per scusarsi. O dire can crepa. La mia mano destra sembra animarsi di vita propria, scende automaticamente nella tasca del cappotto, a cercare il primo oggetto appuntito a tiro. E’ la chiave del blocca pedali, non è esattamente appuntita ma applicando la giusta pressione…

Mi guardo attorno con aria normale, avanzo verso la Peugeot, mi è di strada per arrivare al cancelletto, così magari se all’ultimo istante mi manca il coraggio tiro via dritto senza far niente, ma poi quando sono esattamente accanto ruoto il polso e inizio a percorrere la fiancata blu con la punta, deliberatamente, dal fanale posteriore a quello anteriore. Il rumore è basso, per niente allarmante, e mi provoca invece un gran senso di soddisfazione.

Aspetto di arrivare sotto la pensilina del cancelletto prima di guardare la chiave: pensavo di trovarci almeno un ricciolino di vernice blu attaccato sopra, e invece niente. Mi sento un po’ delusa ma mi dico, tra e e me, come faccio sempre: si può migliorare. Mentre cammino sul vialetto mi interrogo: non ho mai fatto una cosa del genere, cosa mi prende? E, soprattutto, da dove viene questa mancanza di rimorsi? Non è da me…

E infatti sto quasi per iniziare a pentirmi quando si mi bussa alla porta il ricordo dell’arrabbiatura che avevo la mattina di qualche giorno fa. E se c’è una cosa che so bene di me è che riesco a rivivere perfettamente un’incazzatura anche a distanza di molto tempo, figuriamoci poi se è fresca fresca. E allora mi decido.

Butto da parte il senso di colpa come un calzino bucato. E inizio. Nei giorni successivi, un colpetto di chiave ogni tanto. Un tot di colpi alla settimana. Niente che, preso singolarmente, possa attirare l’attenzione; ma, tutti insieme, creano un colpo d’occhio soddisfacente (per me). Un po’ meno per il bastardo. Certo, potrei dare una singola “zampata” clamorosa e chiudere il conto.

Ma mi piace di più così. Posso sentire il rumore della 206 blu che si svaluta, un pezzettino alla volta.

E non ho ancora finito.


L'ammaccatura nella foto, ovviamente, non è la mia. Ma gli assomiglia tanto.

Tanto vale che tu lo sappia

L'idea di scrivere queste righe mi è venuta in seguito alle molte esperienze di "conversazione", virtuali e di persona, che ho avuto nel corso degli anni. Si tratta di una... piccola presentazione del mio modo di essere, della quale ti prego di tenere conto. Non credo di essere una persona dalle "idee statiche," per cui è possibile che di tanto in tanto riveda le posizioni che scrivo qui di seguito.

Il panorama del cross-dressing è molto ampio. Giusto per indicare una delle sue tante discriminanti, ci sono delle "sorelline" (tra di noi a volte ci chiamiamo così) che sono molto curate e femminili, e che potrebbero tranquillamente passare per delle "bio" (il "nostro" modo per definire le donne biologiche, le donne "vere" insomma). Personalmente ne conosco qualcuna. All'altra estremità c'è chi "si accontenta" (per amore o per forza) di indossare dell'intimo femminile e stop su un "semplice" corpo maschile, anche senza depilarsi e tenendo pure barba e baffi :o)

Ho la massima considerazione e rispetto per tutte: ogni crossdresser (ma questo discorso potrebbe essere esteso bene o male a chiunque) è arrivata al proprio modo di essere attaverso una strada diversa, unica, e troppo spesso sofferta; nessuna è meno degna di un'altra. Ognuna di noi ha le proprie preferenze e "ricette" per diventare "se stessa" e, per quanto mi riguarda, è libera di viverle come vuole.

Su questa immaginaria scala di "crossdressità" io credo di posizionarmi esattamente nel mezzo, e ti spiego perché. Primo, con i miei due metri e passa di altezza (OK, con i tacchi, ma sono sempre tanti) e il mio fisichino non esattamente filiforme difficilmente posso passare per una "bio" (le "bio" sono le donne "biologiche", quelle nate già così insomma). Anche solo lontanamente. Anche in una notte buia, in un vicolo oscuro e dentro un sacco di iuta.

Però, come credo traspaia da alcuni dei miei post, sono pazzamente innamorata dei dettagli che contribuiscono a definire la femminilità, talmente innamorata da volerli fare miei, anche se questo vuol dire passare ore al trucco e parrucco.

Ripeto: non me ne voglia chi la pensa - e la vive - diversamente da me, la mia non è assolutamente una critica (ci mancherebbe!) ma solo una piccola spiegazione di come son fatta io... al mondo c'è posto per tutti. Se c'è una cosa che mi è sempre piaciuta di noi "sorelline" è il profondo senso di rispetto reciproco e solidarietà che ci anima (vabbé, la maggior parte di noi...)

Mi sono accorta di questa insolita caratteristica frequentando un forum dedicato alle crossdresser, un luogo particolare, una specie di arcadia dove si fa quasi a gara nel mettere le persone a proprio agio, dove anche le (poche) critiche sono sempre rispettose, mai aspre, mai scritte a cuor leggero ma anzi con mille cautele e premure. Beh, quasi sempre.

Ma sto divagando. Adesso dovrebbe venire la parte dedicata alle mie preferenze e ai miei limiti; ci ho pensato parecchio su, e mi son resa conto che è molto difficile trattare l'argomento senza scadere in un triste effetto "lista della spesa". Senza contare che sono in continua "sperimentazione", mi piace studiare e provare sempre cose nuove, ed è quindi possibile che (con le giuste premesse) io possa apprezzare domani una cosa che non mi "piace" oggi.

Per cui mi limito all'essenziale. Prima di tutto: molti, la prima volta che ci incontriamo in chat, mi chiedono se ho "preferenze" nell'andare con uomini o donne. Posso dire in tutta tranquillità che preferenze non ne ho; c'è molto da apprezzare e scoprire in entrambi i casi. Io preferisco le "persone". Rispettose, gentili, aperte al dialogo e al confronto, come credo (mi sforzo) di essere anch'io. Mi piacciono le persone che mi forniscono - direttamente o indirettamente - stimoli, spunti per la riflessione. Però a volte sono un Diesel e le cose le capisco dopo, porta pazienza.

Come dice la mia amica Laura, sono una persona abbastanza complicata, e apprezzo di più chi è pieno di dubbi e incertezze che non i personaggi troppo sicuri di se. Se sei troppo compreso nel tuo ruolo, se ti prendi troppo sul serio, se preferisci identificare le persone secondo rigide categorie di appartenenza, se sei rozzo, volgare, presuntuoso (OK, i rozzi volgari e presuntuosi difficilmente sanno di esserlo, lo ammetto), se pensi di potermi cogliere come un frutto maturo senza metterci un minimo di impegno... allora non faccio per te.

I titoli e le esperienze non mi impressionano. Mi impressiona invece la sincerità, la complicità, l'ironia e la voglia di ridere. Rispondo onestamente a tutte le domande, e se non posso rispondere onestamente, allora non rispondo affatto. E dato che io per prima non mi fido di chi dice "sono sincero" o "fidati di me" - perché sembra troppo un trucco da "il gatto e la volpe" - non ho la pretesa di essere creduta sulla parola.

Mi sforzo quotidianamente di avere una mentalità aperta, e con il numero minore possibile di pregiudizi. Come ho già detto, mi piace esplorare sempre cose nuove, e ce ne sono alcune che non mi piace fare; ma questo non vuol dire che in futuro possa invece arrivare ad apprezzarle (è già successo).

Se vuoi entrare in contatto con me lascia un commento qui sotto.

lunedì 7 febbraio 2011

Tell Me There's A Heaven


Tempo fa il notiziario radio ha passato la notizia che l'ultimo film di Checco Zalone, Che Bella Giornata, aveva sbancato il botteghino e realizzato l'incasso record di tutti i tempi in Italia, o qualcosa del genere. La notizia successiva era quella del bambino di Bologna morto di freddo a 20 giorni di vita. L'effetto delle due notizie, così ravvicinate, è stato devastante come prendere una sberla in pieno viso.

E' stato come se la giornalista, presumo involontariamente, avesse unito insieme due fatti di segno diametralmente opposto, però entrambi - purtroppo - emblematici della nostra società, da un lato pasciuta ma dall'altro con troppi scheletri negli armadi. Non me ne voglia Checco se lo prendo a campione di un'Italia con la pancia piena, pigra, noncurante e godereccia. E mi perdoni anche il piccolo Devid, la cui definitiva partenza da questo mondo è stata accompagnata dal solito, consueto giro mediatico di accuse, controaccuse, sensazionalismi e indignazioni virtuose che durano il tempo in cui una notizia "fa notizia", e poi cadono nel dimenticatoio.

Io non guardo molta televisione, il più delle volte mi serve solo da "sottofondo" mentre faccio altro, come per esempio quando scrivo al computer. Ieri sera ho potuto "ascoltare" e, di tanto in tanto anche vedere, la replica di un programma di cabaret, Saturday Night Live, con Peppe Braida e la Casalegno. Un programma decisamente orrendo, con sketch deprimenti, beceri e dialoghi che nemmeno all'oratorio. Il tutto mal recitato, anche, e di una bruttezza ipnotizzante.

Ogni tanto il regista inquadrava in maniera suicida alcune signorine carine del pubblico (come usa fare in questi programmi), le quali restituivano impietosamente, ogni volta, uno sguardo visibilmente annoiato e un'espressione assolutamente priva della minima ombra di un sorriso. Il pensiero mi è volato automaticamente al "vero" Saturday Night Live, quello di Chevy Chase, Bill Murray, Billy Crystal e Dan Aykroyd, dove John Belushi si esibiva vesttito da ape in Flip Flop & Fly (odiando segretamente ogni secondo di quella performace). Adesso si starà rivoltando nella tomba, assieme al fantasma di George Orwell e il suo Grande Fratello.

Ho saputo che ogni puntata di Zelig costa a Mediaset circa un milione di Euro; mi chiedo quanto costi una del "nostro" Saturday Night Live, sempre e comunque troppo. Poi, stamattina, alla radio un'altra notizia: l'incendio della roulotte a Roma e i quattro bambini rom carbonizzati. E ancora una volta, l'implacabile contorno di rivendicazioni, colpevolizzazioni, accuse lanciate, respinte e schivate. Sopra le ossa calcinate di quattro corpicini. Siamo sempre gli stessi, non cambiamo mai.

Giuro, avrei voluto essere più scanzonata, e scrivere un post in cui sbeffeggiavo allegramente la solita TV spazzatura tutta culi e tette, io ce l'ho messa tutta, ma la realtà quotidiana ancora una volta mi ha gettato un secchio d'acqua fredda in testa.

Due parole sul video: odio i tributi in generale e quelli strappalacrime in modo particolare. Vedendo e ascoltando il video qualcuno potrebbe pensare il contrario, ma vi assicuro che è così. Tell Me There's A Heaven è una canzone che mi accompagna da molto tempo, ma che ho compreso in pieno solo da poco. Ad ogni modo non posso farci niente: mi viene sempre in mente tutte le volte che sento notizie di un certo tipo. Qualcuno di voi potrebbe non capire questo post, non preoccupatevi.

sabato 5 febbraio 2011

La mia notte en femme

Di recente, un po' a causa di certe ricorrenze e un po' per via di dispiaceri "del momento", mi sono resa conto di aver abbandonato la vena ironica che avrei voluto permeasse il mio blog.

In certi momenti e in certe situazioni l'ironia è tutto; meglio ancora, l'autoironia. Se sei arrivata al punto di riuscire a non prenderti troppo sul serio, e a saper ridere serenamente di te stessa e della tua condizione di "ne carne ne pesce", vuol dire che la strada percorsa sul sentiero dell'accettazione e dell'autostima è stata molta. Solo chi è sicuro di se riesce anche a ridere di se. Per lo meno, in questo momento la penso così.

Qualche tempo fa per puro caso, navigando in internet, mi sono imbattuta in una storia a fumetti che ho trovato molto divertente e interessante. Adoro il fumetto in (quasi) tutte le sue forme, sia quando è "leggero" sia quando viene usato per raccontare delle storie importanti. Questo in particolare parla dello strano "esperimento" compiuto da un giornalista-illustratore-fumettista del Toronto National Post, Steve Murray, il quale ha provato per una notte il brivido di essere una cross-dresser e lo ha raccontato con molta ironia e originalità.

In un panorama come il "nostro", in cui la stragrande maggioranza dei fumetti a soggetto trans/trav/CD è del tipo prettamente pornografico, le due paginette di Steve sono veramente una boccata d'aria fresca. Ho pensato di condividerle con i miei lettori, in modo da riportare il blog nella giusta carreggiata. Un post "di alleggerimento", insomma.

La traduzione in italiano è un mio misfatto; come sempre, ho dovuto tagliare e riadattare parecchio. Se volete leggere il fumetto nella versione originale, il link è questo.

Nota della traduttrice: la canzone cantata da Steve/Jessica nella penultima vignetta della prima pagina era originariamente Lady in Red di Chris de Burgh; ho preferito sostituirla con Donna Donna Donna di Mina. I versi originali erano: The lady in red is dancing with me cheek to cheek. There's nobody here, it's just you and me, It's where I wanna be… ["la signora in rosso sta danzando con me guancia a guancia. Non c'è nessuno qui, solo io e te, è dove vorrei essere..."]

 E adesso il fumetto:


giovedì 3 febbraio 2011

Ma Anche Una Rana Affoga


Sono stanca stasera. E quando sono stanca sono pericolosa, perchè tendo a essere logorroica. A straparlare. Però c'è qualcosa che mi gira in testa da qualche tempo, gira e gira e gira, e nonostante mi fossi ripromessa di non dar seguito alla cosa, non posso fare a meno di continuare a pensarci. Ora che sono qui davanti alla tastiera penso che forse è meglio se quello che mi assilla lo metto nero su bianco, magari la pianta di ronzarmi in testa e va a spiaccicarsi sul monitor. Vediamo se mi riesce questa specie di transfert, questo esorcismo informatico. E allora.

Quando ti ho vista per la prima volta, un incontro improvviso come pochi me ne capitano, dentro di me ha iniziato a suonare un campanello. E anche questa non è una cosa che mi succede spesso. O meglio, non è proprio un campanello, ma quella sensazione strana, che ho provato al massimo quattro volte e non di più, che mi fa dire: sono al cospetto di una persona che potrebbe essere importante nella mia vita. Senza che ci sia assolutamente alcun motivo, alcun indizio evidente a giustificarlo. Nulla di nulla, solo una veloce occhiata. Ma non ho mai sbagliato. Io lo chiamo lo Zap.

Ho avuto uno Zap. Solo che non me lo posso permettere, e non per i motivi che forse credi tu.

Adesso, col senno di poi, mi guardo indietro e penso che avrei dovuto prendere altre strade nella mia vita. Scherzando, spesso dico di aver fatto le scelte giuste al momento sbagliato, e quelle sbagliate al momento giusto. Mi illudo di averla inventata io, questa frase, e qui la lascio perchè venga usata da chi lo vuole, basta che ci si riconosca. Anche solo dieci anni fa avrei potuto dare un "indirizzo" diverso alla mia storia, ma non è accaduto. Sono un Diesel, ci metto un po' a riscaldarmi, e capisco le cose quando è ormai troppo tardi.

Ammetto che, quando ho capito di aver "fatto colpo" (lasciami cullare almeno in questa illusione) la cosa mi ha lusingato per un istante. Era la lusinga che nasce dall'incredulità. L'istante successivo ho deciso di non avere niente a che fare con te, ma ho fallito. Le cose che scrivi, che ho letto di te me lo hanno impedito. Non voglio soffermarmi sui pensieri che le tue parole hanno fatto nascere in me, è storia ormai vecchia e non è questo l'argomento da trattare, ora.

Ho compreso le tue difficoltà in ritardo, come sempre con me, e speravo di poterti essere d'aiuto. Se non altro mostrandoti una persona che, nella sua "doppiezza", è sincera. Suona strano, vero? Eppure è così... Ti ho raccontato la storia della rana e dello scorpione (l'ho raccontata ormai a tante persone...), che tu però sapevi già, per farti capire che ci sono destini a cui nessuno può sfuggire, perchè sono già scritti dentro di noi. Come la falena che sa che finirà bruciata dalla fiamma che la attira.

Eppure, ti confesso che nonostante la certezza del mio presente, in alcuni momenti ho desiderato di aver preso delle strade differenti, di poter essere oggi un'altra persona e poterti dire "sono io, quello." Ma non lo sono, ne ho mai pensato di poterlo essere. Per questo ho lasciato che tu conoscessi questo lato di me, e confesso di aver avuto paura nel farlo. Tanto che ero sul punto di non farlo. Tra me e me dicevo: ora basta, adesso scompaio e non sentirà mai più parlare di me.

Hai saputo essere molto convincente, come solo le "bio" sanno essere, ma la colpa è mia che ho ceduto. Avevo persino cambiato la foto del profilo, per renderti il colpo un po' meno "duro". Ti avevo chiesto, nel caso ti fossi sentita delusa o tradita, di scomparire. L'ho fatto unicamente per evitare confronti penosi per entrambi (no, vabbè, penosi solo per me) e non perchè altrimenti ti avrei portato rancore. Hai scelto una solzione più elegante, te lo riconosco, ma alla fine il risultato è stato lo stesso. E non ti porto comunque rancore.

Quando racconto la storia della rana e dello scorpione, mi vien da pensare che tutti guardino solo allo scorpione, commiserandolo con una specie di triste ammirazione: affoga, ma resta se stesso fino in fondo. Però stasera tu mi hai fatto pensare che anche la rana muore, e lei è innocente delle colpe dello scorpione.

mercoledì 2 febbraio 2011

Il giorno della memoria reprise (non più) commentabile!


Sono rimasta piacevolmente sorpresa dal livello di visibilità che quest'anno è stato dato al giorno della memoria, che mi è sembrato superiore a quello dell'anno passato. Ma forse è satato solo l'effetto di partecipare, per una volta, non più da semplice "spettatrice" ma anche da "protagonista" per quanto molto, mooolto in piccolo.

E - anche se qualche "purista" forse non sarà d'accordo - ho gradito ancora di più il fatto che sia stata data attenzione anche alle altre "minoranze" toccate dalla persecuzione, come ad esempio i malati e i disabili (stimati in una cifra variabile tra 100 e 200 mila) eliminati dal programma di eugenetica tedesco, descritto da Marco Paolini nel suo ultimo impressionante recital Ausmerzen.

Nei giorni successivi alla pubblicazione del post mi sono accorta di aver tralasciato molte cose che invece avrei voluto scrivere. Ma l'oceano di ingiustizia e dolore che l'ultima guerra ha rappresentato è troppo ampio per poter essere contenuto, anche in forma di scarno riassunto, nella pagina di un blog come il mio. Ho quindi resistito al mio solito istinto di correggere, ricorreggere, tagliare e aggiungere cose ad un post già scritto. Credo che, per adesso, possa bastare.

Uno degli interrogativi inespressi nel post era quello del tipo di reazione che avrebbero avuto i miei (presunti) lettori. Il timore era quello di attirare commenti velenosi, razzisti, idioti. Giusto per fare un confronto, un taccuino con il medesimo tema pubblicato su Legami è "andato in vacca" già al quinto intervento, ed è stato "raddrizzato" in seguito solo con molta fatica. Senza però poter impedire di sollevare, in me che leggevo, un senso di nausea dovuto alla futilità e alla pignoleria dimostrata da qualcuno anche in faccia a tragedie di proporzioni mondiali. E se una tragedia come l'olocausto non ferma certi commenti, figuriamoci cosa potrebbero fare le sciocchezze che scrivo io.

Per questo ho apprezzato moltissimo le lodi di un'amica, con la quale ho condiviso timori e aspettative. Devo confessare di aver pubblicato, non senza timore, l'indirizzo del mio post nel citato taccuino. Non ho cercato con questo di farmi pubblicità, ho semplicemente voluto esprimere in maniera rapida ed esauriente il mio punto di vista (la stesura del post mi ha infatti richiesto qualcosa come cinque giorni, tra ricerche e riflessioni). Mi aspettavo una reazione violenta che per fortuna non c'è stata, per lo meno fino ad oggi.

Quello che invece c'è stato ha dell'incredibile: ho ricevuto gli apprezzamenti di due lettrici assolutamente inaspettate, che con parole sincere e profonde mi hanno espresso la loro vicinanza. Alcuni dettagli e riflessioni che queste due persone hanno voluto condividere con me sono stati particolarmente toccanti. Una delle due mi era addirittura assolutamente sconosciuta, e ha fatto salire il numero totale dei miei lettori accertati a tre.

Non ho le parole per trasmettere a queste tre persone (una "bio" e due "sorelline" assolutamente speciali) il mio ringraziamento profondo per aver perso un po' del loro tempo leggendo le mie farneticazioni; mi ero illusa di scrivere queste pagine esclusivamente per me stessa, a scopo terapeutico, e l'idea di aver trovato tramite le mie parole delle persone desiderose di confrontarsi con me mi ha fatto sentire molto bene. Spero per il futuro di poter ricambiare, e di non deludervi (troppo).

Aggiornamento ultim'ora: ho notato di aver "sfondato" la soglia psicologica dei 300 passaggi sul blog. Mi ero ripromessa, tempo fa, che quando sarebbe successo avrei provato a fare qualcosa di decisamente "contro natura" per me, e cioè pubblicare il mio primo post commentabile. Cioè il presente. Ma con un paio di avvertimenti: lo lascerò commentabile solo per pochi giorni, ed eliminerò a mio insindacabile giudizio qualunque commento che riterrò fuori luogo o offensivo. Per cui, se proprio avete qualcosa in gola che dovete dirmi, approfittatene ora.

Aggiunta del 5/02/2011:
Chiudo la possibilità di commentare il post. Risultato: a parte un commento ricevuto via posta elettronica (che mi è piaciuto e mi ha divertito moltissimo), zero. Tutto sommato è un risultato che mi può anche andare bene. Ci rivediamo (forse) al seicentesimo passaggio.