martedì 25 dicembre 2012

Non è un altro stupido racconto di natale




Si dice che a natale bisognerebbe essere buoni. E, più in generale, che non si dovrebbe parlare male dei morti. Lo so, ma non ce l’ho fatta. Ah, qua e la ci sono delle citazioni tratte da canzoni di De André e Guccini. So anche questo.




E così, alla fine, te ne sei andato. Quando ormai era del tutto inutile, quando ormai tutto il male che potevi fare era stato compiuto. Te ne sei andato esattamente come credevo che avresti fatto: da egoista, cercando un rimedio alle tue paure in quel dio che, quando eri sano, hai sempre disprezzato.


Negli ultimi tempi le poche persone che ti stavano attorno e che ancora ti volevano bene (non contare me tra queste) sembravano darti fastidio; perché eri troppo preso a costruirti un dio personale, a tua immagine, che potesse assolverti e confortarti, e non avevi tempo per farti distrarre da loro. Per questo la tua tensione mistica, il tuo odore di santità non mi hanno ingannata.

Sei stato una delle persone peggiori che ho mai conosciuto. Il più saccente, egoista, cavilloso, presuntuoso, predica-bene-razzola-male spocchioso pedante rancoroso stronzo che ho mai conosciuto. Sempre pronto alla malignità, alla superbia, alla derisione.

Bastian contrario per principio, per spirito di contraddizione, per desiderio costante di voler primeggiare, prevalere su tutto e su tutti e ad ogni costo. Anche quando l’evidenza ti mostrava che eri palesemente in torto, persino in torto marcio, tu ti arroccavi ostinato e caparbio sulla tua posizione insostenibile, con effetti che spesso sconfinavano nel grottesco e nel ridicolo.

Come la volta che al ristorante cinese ti rifiutasti di credere ai nostri avvertimenti ed esagerasti con la salsa piccante, come a sfidarci, raccogliendo sprezzante persino le gocce rimaste sull’orlo della bottiglia e portandotele alla bocca. E poi rimanesti zitto, paonazzo e sudante per il resto della serata.

E di episodi così ne sono capitati a decine, e noi – tuoi nipoti e tuoi figli – ce li raccontavamo l’un l’altro alle tue spalle godendone. Perché tutti noi – chi più chi meno – in momenti diversi della nostra vita abbiamo avuto la disgrazia di passare sotto i tuoi artigli, di provare la sferza della tua lingua, di finire schiacciati dalla tua presunzione, tu pecora coi leoni e leone con le pecore.

Razzista, antisemita. Hai rimpianto per cinquant'anni la caduta di un regime che tu hai plaudito, sostenuto, e contribuito a creare con convinzione ed impegno. Un regime che si reso complice e responsabile di colpe orrende oltre ogni dire (ne ho già parlato altrove in questo blog), di crimini assurdi anche solo da concepire e che però sono purtroppo accaduti, anche se tu hai sempre, testardamente, cercato di negarne l'evidenza. E quando, messo alle strette, hai dovuto ammetterli, hai persino avuto il coraggio di giustificarli, tu che ne sei stato indirettamente complice.

Hai continuato a ripetere “guerra sola igiene del mondo”, ma ti sei guardato bene dal prendervi parte. La guerra, e le altre cosucce similmente sgradevoli, non erano per te. Tu eri troppo intelligente e importante per prendere in mano un fucile e rischiare di crepare come un cane, quello lo lasciavi agli altri. E comunque la tua famiglia aveva già dato, tuo fratello aveva fatto la Spagna, ovviamente dalla parte dei franchisti, e quindi l'onore era salvo.

Hai cercato, quand'ero giovane, di inculcarmi costantemente la tua religione d’odio, pomeriggio dopo pomeriggio, tu che il fascismo, il razzismo, l’antisemitismo li avevi abbracciati con coscienza ed entusiasmo, non ti erano stati inculcati. Per fortuna ti ho resistito e ancora adesso non so come. Nessuno mi ha mai aiutato, mi ha mai avvertito che quelle che mi propinavi erano mostruosità, eppure ce l’ho fatta lo stesso. A ripensarci me ne meraviglio, è stato davvero essere come Davide contro Golia.

Ti sei mai accorto che il cognome di tua moglie, il suo naso, erano tipicamente ebrei? O come al solito hai preferito, di fronte alle verità scomode, nascondere la testa sotto la sabbia? Avresti potuto morire anni fa, decenni fa, e forse per tante persone sarebbe stato meglio. In primo luogo per tua moglie, mia nonna. Morta quando io avevo solo cinque anni. La ricordo come un’ombra, un’ombra benevola e triste.

Di lei gli altri mi hanno raccontato che era buona, fine, elegante. La immagino come una signora d’altri tempi, così me l’hanno descritta quelli che la conoscevano. Lei stravedeva per me, io ero il suo primo nipote, ero forse la prima occasione, la prima speranza dopo anni di poter amare – ed essere riamata – in maniera incondizionata e assoluta, come puoi fare solo con un bimbo.

Era fragile mia nonna, troppo fragile e sottile per poter resistere al tuo orgoglio smisurato e prepotente, e all'indifferente egoismo in cui tu avevi cresciuto i suoi figli. Hai triturato la sua anima tra i tuoi ingranaggi freddi, logici, spietati; ti immagino mentre la sminuivi, la insultavi, la logoravi giorno dopo giorno, come hai sempre fatto con tutti noi. E l’assurdo è che nella tua stolidità non ti sei (quasi) mai accorto di niente.

Ma lei era troppo debole per reggere la solitudine di quel matrimonio, e iniziò a bere. Non sapevi che l’avevo scoperto? Che mia nonna beveva l’ho dovuto sapere da altri, estranei; in famiglia nessuno ha mai avuto il coraggio di dirlo. E in effetti era un’enormità, una cosa inconcepibile, indicibile come se, non so, un’Audrey Hepburn fosse capace di ubriacarsi.

Non la giudico per questo, povera anima. Evidentemente l’alcool la anestetizzava, le permetteva di sopportare quella vita d’inferno alla quale l'avevate condannata. E tu, qualche anno fa, a mio fratello hai persino confessato che la nonna “faceva la stupida” con la bottiglia. Glielo hai detto con un rammarico che a lui sarà persino sembrato sincero (ma non a me, che gli occhi li avevo aperti da tempo).

E così la nonna è morta, era il 1975 e io avevo cinque anni, e non l’ho mai conosciuta veramente. Anni dopo ho pianto per questo, sulla sua tomba. E quella volta ancora non lo sapevo che era morta di cirrosi epatica, che è quella cosa che viene a chi beve anche se solo per disperazione. Ho pensato che si fosse trattato solo del destino.

Fossi morto tu, nel 1975. Lo so, è un gioco puerile e stupido, ma se fossi morto tu forse io sarei oggi una persona migliore. Forse la nonna sarebbe diventata una gentile, vecchia signora, che mi avrebbe abbracciato con le sue mani esili, ossute quando la fossi andata a trovare.

E sul suo letto di morte io avrei pianto, a differenza di quel che ho fatto sul tuo. Quando ti si è fermato il cuore non ho provato dolore. Solo tanta rabbia. Ma questo è un gioco puerile e stupido, acqua passata non macina più eccetera eccetera.

Il prete, durante quell'orribile farsa che è stato il tuo funerale, ha detto che negli ultimi tempi ti eri avvicinato alla fede. Ricordo bene che da giovane eri mangiapreti e – a modo tuo – buddista. Io allora invece credevo, e per questo mi attiravo la tua derisione. Ed è strano pensare che quando io avevo la fede tu ne eri senza, e che quando l’hai trovata tu l’ho persa io. Forse nella nostra famiglia la fede è presente in una quantità finita, limitata, non possiamo averla tutti e ce la dobbiamo dividere, a turno.

Ricordo con quanto veemente disprezzo mi parlavi dei “preti marxisti” tu che sei finito, dopo una vita passata tuonando a sproposito e facendoti beffe della morte di tutti gli altri, tu che sei finito per baciare vigliaccamente quelle tonache nere quando lo spettro della morte ti si è palesato davanti. Come dice la mia amica Cinzia, anche Satana da vecchio diventa credente.

Io spero invece di trovare il coraggio, quando sarà, di morire ancora forte delle mie convinzioni, e spero circondata dall'amore dei miei cari, tenendo per mano le persone a cui ho voluto più bene. E non come te, con il falso conforto di un dio vuoto costruito per paura.

Il prete ha detto che certamente adesso sei in paradiso. Io non credo. Io non credo nel paradiso, non credo nel tuo paradiso; ma anche ammettendo che esista, la mia piccola testa di mortale mi dice che non si può imporre di nuovo la tua presenza a delle povere anime che stanno là e per causa tua (diretta o indiretta) hanno già sofferto abbastanza.

Sei stato un uomo grande nell'orgoglio e nell'intelletto, ma piccolo e miserabile nell'amore. Uno con tanto tempo, e anche il gusto di sprecarlo. Avresti potuto sforzarti, cercare di avvicinarti a chi avresti dovuto amare, ma hai preferito – consapevole della tua miseria d’affetto – scegliere la via più facile, quella della ragione, e tentare di distruggere, di estirpare i sentimenti degli altri. Di renderli come te.

Mi piacerebbe poter dire che non hai avuto alcun effetto su di me. Una dose di quel veleno che tentavi di versarmi attraverso gli occhi e le orecchie è rimasta, ti rivedo con disgusto in tanti miei atteggiamenti che cerco di combattere quasi quotidianamente. Ma ti devo ringraziare.

Ti devo ringraziare perché è proprio per come sei stato tu che io ho imparato a non considerare "famiglia" quell'elenco fortuito di persone che si trova in un arido certificato anagrafico. La mia "famiglia" è fatta di persone con le quali ho raggiunto comunione di cuori e a volte anche di menti. Grazie al tuo esempio ho conosciuto e frequento, amata e riamando a mia volta, gente che tu da buon borghese condanneresti a diecimila anni più le spese. Persone come me.

Sei stato un piccolo uomo che avrebbe potuto proiettare una grande luce, e invece ha steso solo una piccola ombra.

mercoledì 1 agosto 2012

Bologna, o il dito della Storia


C'è un vizio, che come tanti altri, è tipicamente italiano. E' il vizio della commemorazione, della ricorrenza. Succede qualcosa, generalmente di grave, e l'anno dopo scatta la commemorazione. Si vede un servizio in tv, ci si ricorda, si pensa: "caspita, è già passato un anno!", due commenti al caffè, uno al telefono, e dopo cinque minuti tutto ritorna nel dimenticatoio.

Con anniversari particolari come decennali e multipli funziona ancora meglio, la celebrazione è più corposa, magari ci scappa anche la corona di fiori del presidente; finché un giorno di moltissimi anni dopo, la tv passa un servizio a metà tra la curiosità e l'amarcord dove si dice che l'ultimo sopravvissuto è morto di vecchiaia, musichetta di sottofondo sdolcinata e malinconica, e stop. Tutto finito. Se ne riparlerà se e quando la cosa arriverà sui libri di storia.

Non posso in tutta sincerità ammettere di essere immune da questo vizio. Ma oggi no, rivendico la mia originalità. Il post che state per leggere è stato scritto mesi e mesi fa, lontano da qualsiasi anniversario. Poi è rimasto, incompiuto, nel cassetto in attesa di una giusta conclusione che stentava ad arrivare. Poi, la svolta, la conclusione. E per una di quelle circostanze curiose ed imperscrutabili della vita, il post è stato terminato proprio nel momento esatto in cui si celebra la ricorrenza dell'evento di cui parla.


A Bologna, e ai bolognesi
di Syuzee, 2012
Qualche tempo fa, durante uno dei miei ormai rari viaggi in treno,  sono scesa alla stazione di Bologna. A Bologna c'ero già stata altre volte ma sempre in macchina, mai in treno. Scendendo dal vagone sapevo di avere un appuntamento. Non era segnato in nessuna agenda, però sapevo di averlo.

Ci sono episodi che lasciano un segno particolare nella cosiddetta "coscienza collettiva." Ad esempio, tutti si ricordano dov'erano e cosa stavano facendo l'11 settembre, quando ci fu l'attacco alle torri gemelle. Anche la strage di Bologna ha lasciato uno di questi segni, simile ma diverso.

Se lo chiedi, quasi nessuno si ricorda la data esatta. Quasi nessuno a parte quelli che abitano a Bologna e nei paesi dove a quella strage hanno dedicato una via o una piazza. Alcuni ci pensano un po' su, e poi si ricordano che era d'estate, perché molte delle vittime stavano andando in vacanza.

Quello che però è particolare di questo evento è che quasi tutti ne sono stati toccati, più o meno da vicino, più o meno direttamente. Tutti hanno avuto un amico, un parente, un vicino di casa che è passato per quella stazione il giorno prima, o un'ora prima, o addirittura ha perso "quel" treno e perciò si è salvato. Questa cosa è talmente diffusa e comune da essere emblematica, da seganre questo particolare episodio più di altri, simili, accaduti prima e dopo in Italia.

Mio cugino per esempio. Passò di lì in treno il giorno prima, e si salvò. Solo ventiquattr'ore di differenza per continuare a vivere o per finire in un elenco. Era agosto, sabato 2 agosto 1980. A quei tempi d'agosto le città si spopolavano, mica come oggi. Si lavorava l'ultima settimana di luglio con l'occhio che bruciava famelico i giorni sul calendario, il venerdì sera si preparavano i bagagli e il sabato mattina finalmente si partiva per il mare, per la montagna. Pochi fortunati in aereo, i più in macchina, e in treno. Doveva essere una cosa normale. Avrebbe dovuto essere una cosa normale.

Io all'epoca avevo dieci anni appena compiuti, e abitavo al nord, lontano da Bologna. Per questo motivo avvertii la tragicità della cosa in maniera indistinta, sfumata, senza riuscire a cogliere dei dettagli precisi, così confusi nel bianco e nero del telegiornale.

Sedici anni dopo, per caso, sfogliai un libro fotografico dedicato alla strage. Vidi, con occhi nuovi e come se fosse per la prima volta, le foto della stazione che l'esplosione aveva reso anormale, asimmetrica, il piazzale ingombro di macerie, camion, gru, ambulanze, soldati e comuni cittadini, i visi impolverati solcati da lacrime di sudore e lacrime vere, che frugavano tra i cumuli di travi e mattoni.

Il treno fermo al primo binario, coi finestrini rotti e quel che si immaginava all'interno, e ciò che invece si vedeva fin troppo chiaramente sui binari; il prete che, dentro un autobus davanti alla stazione, benediceva qualcosa coperto da un lenzuolo bianco.

E poi la manifestazione cittadina spontanea, quella sera stessa, un fiume di persone "che non ci stavano", con il cuore gonfio di dolore e rabbia, figli e figlie di quella che Guccini l'anno dopo avrebbe definito, cantandola,  Bologna la grassa e l'umana.

Non so perché, ma i bolognesi mi sono stati sempre istintivamente simpatici. Li ho sempre pensati spensierati, allegri, gente che non si fa troppi problemi o menate, ma che all'occorrenza sa distinguere il serio dal faceto e, soprattutto, ha una coscienza e senso di giustizia. Tutti i bolognesi che ho conosciuto finora sono così, forse ho ragione oppure sono stata fortunata.

Eccomi qua, davanti all'epicentro o, come lo chiamerebbero oggi, ground zero. La lapide coi nomi, la colonna sbrecciata, la crepa nel muro, simbolica ma mica tanto. E poi il pavimento dove era appoggiata la valigia con dentro l'esplosivo.

Ti guardi intorno, e ti sembra incredibile pensare che trentuno anni fa in quel posto è entrata violentemente la storia, che lì volavano travi e mattoni, schegge di vetro, effetti personali, corpi umani. Ventitre chili di esplosivo, ottantacinque persone.

Il punto esatto dell'esplosione, sul pavimento, è marcato da un avvallamento profondo qualche centimetro prodotto dall'onda d'urto. Le tesserine di ceramica tutt'intorno sono state smosse e stampate nel suolo da una pressione inconcepibile. Come se un gigantesco pollice, di dimensioni e forza sovrumane, fosse piombato dal cielo per imprimere lì la sua impronta.

E, contemporaneamente, strappare tutta quella gente alla sua vita normale, ai suoi affetti, al suo destino. Il dito della Storia, forse. Il dito degli uomini.

Chiudo con un commento del mio amico Lawen, bolognese:
"Io vorrei solo non essere italiano, vorrei poter guardare tutto questo, e altro, col distacco a volte un po' cinico dello spettatore che si emoziona ma può sempre pensare «in fondo tutto questo non mi riguarda, è un Paese di pazzi».

Ma italiano mio malgrado lo sono, l'odio verso chi ha fatto queste cose, verso chi ha permesso che fossero fatte, verso chi le ha coperte, lo provo. E il dolore mi lacera, ancora oggi."

giovedì 12 aprile 2012

Not in MY name



TG1 di stasera, servizio sulle nostre forze speciali in Afghanistan. Le immagini sono di bassa qualità, molto pixelate, come se fossero state riprese con un telefonino, lo stile ricorda molto quello di "nella valle di Elah". Da un elicottero scendono al volo alcuni soldati, si dirigono correndo verso un edificio basso, fatto di fango secco. Non sembrano nemmeno italiani, tanto sono massicci & incazzati.

Voce fuori campo: "sono gli uomini delle forze speciali, italiani e afgani, in un'operazione congiunta antiterrorismo. Bisogna stanare un gruppo di talebani, viene lanciata un'offensiva, loro rispondono e nasce un conflitto a fuoco." Come per sottolineare quest'ultima frase i soldati si mettono a correre lungo i muri, con quella particolare andatura che si vede nei film, quasi accucciati, saltellando veloci, con la lunga e nera automatica protesa minacciosamente in avanti. Si sentono molto bene le raffiche di mitra.

Immagini concitate, ritmo molto serrato, avvincente; dall'alto un elicottero a due pale, un Chinhook, sorveglia tutto, un militare sospinge un "talebano", l'andatura è quella impacciata di chi è ammanettato. "Gli insorti vengono trasferiti in carcere per essere interrogati."

Nel dopo-partita la telecamera inquadra i militari in scene di repertorio, nel corso di un addestramento, durante un briefing, tutti con il volto rigorosamente coperto dal passamontagna nero. "La task force 45 è l'elite delle nostre forze speciali, ufficialmente non esiste. Sono soldati invisibili, che rischiano la vita ogni giorno." Segue intervista al comandante, si capisce subito che è uno che conta perché porta il passamontagna marrone anzichè nero - cinc ghej pusè ma russ - ha il tricolore cucito sul braccio sinistro e subito sotto un distintivo triangolare, nero, con una spada e forse delle ali, e delle saette.

"Quello che riesce a darti questo tipo di mestiere è qualcosa di impagabile," dice. La giornalista: "rischiate la vita per la patria?" "Certo," risponde, "rischiamo la vita per la bandiera che portiamo sul braccio."

Per la cronaca, l'Afghanistan è quel paese dove le persone tra le più povere del mondo vengono ammazzate con le armi più sofisticate e costose in circolazione: aerei invisibili, bombe intelligenti, robot assassini telecomandati.

Come tanti altri prima di me, io non ci sto. Not in my name, non fate queste porcate nel mio nome. Dice Noam Chomsky: quando lo stato si fa chiamare patria, si prepara ad uccidere qualcuno.

La foto è dell'ossario di Custoza; molti anni fa mio nonno mi ci portò a vederlo, quasi a tradimento. Lui dell'ultima guerra aveva visto parecchio, ma non mi ha mai raccontato niente; era un uomo di poche parole, e preferiva mostrarmi le cose coi fatti. Fu proprio allora, alla presenza di quei teschi ormai vuoti, muti gusci di persone che come me avevano vissuto, amato, sofferto finchè l'eroica morte del patriota non li aveva colti, che ho iniziato a capire.


Nota:
Cinc ghej pusè ma russ è un modo di dire in dialetto milanese, che grossomodo significa: spendiamo un po' di più ma facciamoci dare qualcosa di meglio. Attenzione: se non sei milanese o per lo meno lombardo qualsiasi tentativo di pronuncia può produrre un risultato comico.

sabato 7 aprile 2012

Il racconto di pasqua di Syuzee


In origine questo doveva essere il racconto di natale di Syuzee. Però non ce l'ho fatta a finirlo in tempo per il natale, e allora l'ho lasciato nel limbo, accantonato in attesa di una migliore occasione, come ad esempio questa.

Doveva essere il 1974 o il 75. Mia mamma mi lesse una cosa he aveva trovato sul Corriere, non era un articolo ma probabilmente una lettera, un appello. Sebbene avessi allora pochi anni ricordo ancora abbastanza bene di cosa si trattava: una madre raccontava la sua situazione di estrema povertà, la sua casa, fredda e spesso allagata, la fatica di riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, le carezze e rassicurazioni ai figli, la sera, per farli addormentare. Le bugie raccontate per farli credere in un futuro migliore. Dettagli commoventi di una miseria allora più comune di adesso, che a quei tempi ancora ci apparteneva e che oggi abbiamo voluto dimenticare.

Ricordo che mia mamma mi chiese immediatamente: "li aiutiamo?" con gli occhi che le brillavano. Credo di aver risposto di sì, ma comunque la sua era una domanda retorica, non aveva certo bisogno del mio permesso per farlo. Mi immagino, più che ricordarlo, il suo tono speranzoso e ottimista, già soddisfatto dalla buona azione ventura; ricordo la fila all'ufficio postale che era proprio davanti casa in un pomeriggio di sole, e il vaglia che mandammo a questa famiglia bisognosa, qualche decina di migliaia di lire da cui potevamo separarci in maniera più o meno indolore.

Diciamo che della mia vita fino agli otto anni non ho moltissimi ricordi, ma questa qui è una cosa che mi è sempre rimasta dentro. Credo che da allora, da quell'esempio di altruismo materno, se vogliamo un po' naif (poi ripetuto sotto forme diverse, più o meno quotidianamente), derivi quel tallone d'achille che ho nei confronti di chi mi chiede aiuto.

L'ultima volta è stata la scorsa estate. Località di villeggiatura al mare, passeggiata serale per le vie del centro (shopping proibito e proibitivo), un tale in camicia e maglioncino buttato sulle spalle mi allunga una cartolina e mi chiede un contributo.

Mi spiega in due parole che raccoglie fondi per pagare delle ore di lezione a dei bambini ciechi; so per esperienza che la frase "faccio già beneficienza da casa" non attacca, non tanto con lui quanto con me, che da casa riesco ormai a farne ben poca (leggi: niente, in tempi di magra sono cazzi per tutti) per cui non provo nemmeno a pronunciarla.

Allungo la mano al portafogli, con la segreta, meschina speranza di trovare cinque euro e cavarmela con poco; col cavolo, dentro c'è solo una banconota, ed è un pezzo grosso (non vi dico quanto per pudore, ma se avete già letto un mio altro post lo potete facilmente indovinare). La spesa di una settimana; un pieno di gasolio; mezza otturazione dal dentista.

So già che sta per lasciarmi, e anche il bliglietto lo sente; ci scambiamo un'ultima, veloce occhiata d'addio e poi ecco che già cambia di mano. Un mio amico, presente alla scena, mi guarda con aria di schifo e riprovazione, come a dire "che imbecille" (io).

Mi rigiro la cartolina tra le mani, cerco disperatamente un appiglio che mi confermi di aver fatto la cosa giusta: macché, è un cartonaccio con tre o quattro vignette orrende, lo conservo ancora. Ogni tanto mi viene la tentazione di guardare su internet (l'occhio nel cielo a cui nulla sfugge) per trovare la conferma di essere stata presa per il sedere, ma poi mi faccio forza e resisto. Non lo voglio sapere.

Sono quasi convinta che, molto probabilmente, anche l'appello della madre bisognosa era un trucco per acchiappare qualche gonzo e spillargli quattrini. Negli anni ho capito che non posso farci niente, è più forte di me, e a volte ha dei risvolti quasi comici. Prego la regia mostrare il secondo contributo.

Siamo a metà degli anni novanta. Il posto è una stazione delle FF.SS., la mattina presto. Il soggetto passeggia avantie indietro lungo la pensilina, sta aspettando il treno. In tasca solo l'abbonamento e pochi spiccioli per fare colazione una volta a destinazione. Si avvicina un tale di mezza età tra il malmesso e il trasandato, probabilmente un clochard come ne girano tanti nelle stazioni. In maniera dimessa chiede al soggetto di dargli qualcosa per fare una telefonata urgente; questo, senza pensarci troppo, gli allunga il contenuto della tasca. Il clochard mi ringrazia e se ne va.

Il protagonista si volta e ricomincia a passeggiare, lo stomaco brontola perché è vuoto ma il cuore è leggero. Fino a quando non incrocia la vetrina del bar della stazione e non vede attraverso il vetro il suo beneficiato davanti al bancone, mentre mangia brioche e cappuccino. La sua colazione, i suoi fottuti brioche e cappuccino.

Ripensandoci oggi, se mi avesse detto che aveva fame gliele avrei date lo stesso quelle poche lire; lui deve aver pensato il contrario, da cui la necessità di raccontare la storiella della telefonata. Però ci rimasi parecchio male, e mi arrabbiai più con me stessa e la mia ingenuità che non con il clochard e la sua bugia. Come mi arrabbio tutte le volte che ci ricasco, anche se so che, tanto, è più forte di me.

giovedì 22 marzo 2012

Scherzi da google



C’è un posto. Questo posto si affaccia su una superstrada, quella che mi porta in ufficio, gli passo davanti due volte al giorno, una alla mattina e l’altra alla sera. Nel giugno del 2008 sulla superstrada è passata la macchinina di google maps (se non ricordo male era una punto) con la sua macchina fotografica magica sul tetto, e ha ripreso tutto, anche quel posto.

Quel posto è un capannone. Nella foto di google si vede il tetto, lungo e diritto, di lamiera chiara, pulita. E’ il capannone di una ditta. Non ci sono insegne, nessuno da fuori può capire cosa ci fanno, dentro. Quel posto oggi non esiste più, cioè non è più così come lo ritrae ancora google, fermo, cristallizzato al giugno del 2008.

E’ entrato a far parte di quei luoghi che esistono solo nella memoria, che sono scomparsi; come un prato invaso da un centro commerciale, o un cinema abbattuto per fare posto a un condominio. La lamiera chiara, pulita, oggi è scura e rugginosa, il tetto non è più diritto ma è curvo, ingobbito, sventrato. Quando lo vedo, due volte al giorno, mi ricorda un gigantesco animale morto e rannicchiato.

Il 4 novembre 2010 quel capannone è bruciato. Un rogo feroce, furioso, perché dentro erano state immagazzinate delle sostanze infiammabili, che però non avrebbero dovuto esserci. Non c’erano i permessi per maneggiarle e stoccarle, e nemmeno le precauzioni. E invece quelle sostanze c’erano, perché il titolare, il padrone, aveva deciso così. E se qualcuno degli operai non era d’accordo poteva anche restare a casa.

Già. Gli operai. Tra quelli che lavoravano nel capannone c’erano quattro persone, quattro operai; storie normali, quasi banali. Due erano albanesi, venuti in Italia come tanti per trovare un lavoro che tanti italiani non vogliono fare più; il terzo era un pensionato che cercava di tirar su qualche soldo extra per pagare gli studi alla figlia; il quarto un custode, che avrebbe dovuto sposarsi di li a poco.

Persone come tante, per le quali il lavoro è vita, è possibilità di mantenere una famiglia, dei figli, pagare il mutuo e le bollette. Il pensionato e uno degli albanesi sono stati i primi a morire, per le ferite, due settimane dopo. Due mesi dopo è toccato al custode, che non è più riuscito a sposarsi. Nonostante la disperazione della convivente e della loro figlia di 15 anni.

Dopo un altro mese - e 22 inutili operazioni chirurgiche - è morto anche il secondo albanese. Io dico persone, dico pensionato, custode, albanese. Sono solo parole, ma dietro le parole ci sono degli esseri fatti di carne e sangue come me, come te, che sono bruciati vivi e poi sono morti perché o lavoravano in mezzo a quelle sostanze o restavano a casa a fare la fame. Perché qualcuno li aveva costretti a quel patto con il diavolo.

Il padrone è stato arrestato. Tre i capi d’accusa: omicidio colposo, violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, e traffico illecito di rifiuti. Perché invece di portare in discarica i rifiuti pericolosi - e pagare - li conservava nel capannone e li faceva smaltire ai suoi operai. Ma non vi illudiate che questo sia una specie di lieto fine: conoscendo come girano le cose in Italia, in galera ci resterà poco. La giustizia non è di questo mondo. Nel frattempo quattro famiglie sono rimaste sul lastrico, mogli senza marito, figli senza padre.

Presto adesso, rimboccarsi le maniche per portare a casa la pagnotta. Che le banche non aspettano e i supermercati non regalano. Stringere i denti e la cintura. Tornare in Albania. Cercare di fare senza.

Io ho un lavoro da dipendente. Ho il terrore di trovarmi nella stessa situazione, prima o poi. Se si decide, come sembra molto probabile che sia, di mettere nelle mani dei direttori, degli imprenditori, dei capitani d’industria, il potere di licenziare liberamente i propri dipendenti. La flessibilità in uscita, che bella parola.

Vedo ogni giorno dei begli esempi di questi cosiddetti responsabili calpestare senza rimorsi le vite di quanti lavorano per loro, caricandole di continui disprezzi, grandi e piccoli; e tutto questo mentre ancora non hanno il pieno potere di rovinargli completamente la vita, entro certi limiti. Immaginati quando l'avranno. Gente senza pietà, senza vergogna, compassione, che crede sul serio di avere una responsabilità limitata.

Li ho visti abusare di cassa integrazione, prepensionamenti, apprendistato, straordinari non pagati, lavoro nero, ogni sorta di porcheria permessa o di fatto tollerata con l’attuale legislazione. Sghignazzare perché avevano comprato una macchina che fa il lavoro di tre persone, e quelle tre le hanno lasciate a casa. Chissà cosa potranno fare quando avranno veramente mano libera.

E i politici, che tra sprechi, tette e corruzione sono la causa principale della nostra crisi, pretendono in questo bel modo di trovare anche la soluzione. Ho visto anche loro, oggi, ascoltare annoiati in parlamento gli interventi pro o contro la modifica all’articolo 18. Tanto non gli interessa. Gente che guadagna cento, duecentomila euro l'anno non può sapere cos’è la fame degli altri.

Strani scherzi fa google maps. Ci trovi un posto che non c’è più, una foto del 2008. Un capannone nuovo, adesso bruciato, quattro persone lì dentro che hanno ancora poco più di due anni di vita davanti a loro, e non lo sanno.

venerdì 17 febbraio 2012

L'innominabile

C'è una parola che non può assolutamente essere nominata in televisione. L'ho scoperta qualche giorno fa leggendo su un giornale di tutti i casini scoppiati a San Remo, e di come l'ispettore della RAI sia dovuto corrrere, volare, all'Ariston dopo la prima serata per inculcare i do & don'ts nelle teste dei comici e dei conduttori più disinvolti e sboccati.

Allora, puoi andare in televisione e dire cazzoculofigatette - e c'è chi lo ha fatto, forse ve lo ricordate - ed è OK. Puoi anche dire figliodiputtana, porcaputtana, puttana eva, è OK anche quello. Puttana troia non bisognerebbe dirlo, ma non per volgarità ma perchè è pleonasmo, una ripetizione dello stesso concetto; meglio dire porca troia, che invece specifica meglio. Anche daicazzo è OK. Però quella parola lì, proprio quella lì, non la puoi dire, altrimenti non è più OK.

Sto parlando di una parola normalissima, che è persino presente nel vocabolario. Una parola che, invece di essere perseguitata, esiliata, disprezzata dalla tv, dovrebbe essere pronunciata spesso, e con piena dignità. Adesso mi immagino che starete pensando a quale diavolo di parola possa trattarsi, buttando lì un tot di supposizioni che spaziano dal volgare-ma-non-troppo al pruriginoso (come ad esempio rapporto orale, invece è OK pure quello). Vi devo deludere: sono tutte sbagliate.

La parolina magica è preservativo. Preservativo. Ci credereste? Eppure è così. Quell'affare di gomma che serve, di volta in volta, a non procreare o a proteggersi dalle malattie sessuali, o entrambe le cose insieme. Ci sono vari eufemismi, più o meno volgari, più o meno divertenti, per definire questo oggetto: profilattico, goldone, cappuccetto, vestitino, gommino, guanto, salvagente, tutina da lavoro, eccetera eccetera.

Tutti ovviamente e indiscriminatamente off-limits per la tivù. Preservativo è un termine tutto sommato tecnico, che in ultima analisi indica qualcosa che preserva (la nostra vita dall'HIV? Le nostre magre finanze da una gravidanza indesiderata?) Epperò, tecnico o no, niente da fare: vietate le apparizioni, le comparsate, persino la semplice menzione nella scatoletta di vetro.

La domanda mi sembra quantomai ovvia: perché? Anche la risposta mi sa che è ovvia. C'è bisogno di dirla? Il preservativo è una cosa che non dovrebbe mai entrare nella vita di qualsiasi coppia perbene e timorata di dio. E' una cosa buona per le puttane e gli omosessuali, per i marinai in libera uscita e per le rovinafamiglie. Evoca un lubrico e viscido oggetto di gomma che va srotolato - srotolato! - sul pene, in previsione di un rapporto clandestino, o contro natura, in ogni caso al di fuori della benedizione del matrimonio e/o dell'ordine naturale delle cose.

Ci sono farmacisti che ti guardano male ancora oggi, quando li compri (per contro le cassiere del super ti guardano con l'occhio malizioso). Peggio ancora se insieme ci metti anche qualche lubrificante, perché allora si tratta chiaramente di un caso di sodomia conclamata e premeditata. Ci sono preti che tuonano dal pulpito contro i profilattici, specie in Africa dove, tra AIDS e una inestirpabile consuetudine allo stupro, ce ne sarebbe invece un gran bisogno.

Il santo subito andava a consacrare la cattedrale costruita a immagine e somiglianza di San Pietro nel mezzo di un paese africano, costata 250 milioni di Euro racimolati in larga parte dal corrotto presidente di quello stesso paese (indovinate come?), mentre l'abitante medio era mediamente col culo per terra, ma il preservativo no, ah no! Non si può. E allora giù, come diceva De André, feconda una donna ogni volta che l'ami così sarai uomo di fede: poi la voglia svanisce ed il figlio rimane, e tanti ne uccide la fame.

No, in tivù non si può dire. Ma qui, per fortuna, ancora sì. Vediamo fino a quando.

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goldone

venerdì 27 gennaio 2012

De miseria humanae conditionis


Qualche giorno fa ho ricevuto una email piena di immagini di sbeffeggio all'indirizzo del comandante della nave che di recente si è incagliata al Giglio. Varie battute neanche tanto divertenti, come ad esempio "tonno nostronzo", e l'immancabile refrain, diventato ormai il simbolo internazionale dell'italica ignavia, ripetuto all'infinito: "vada a bordo, cazzo".

A dire il vero l'email l'ho ricevuta due volte, a pochi minuti di distanza l'una dall'altra, e in entrambi i casi da persone "insospettabili." E dico insospettabili perché mai avrei sospettato che queste due persone avrebbero potuto dimostrare un così squisito pessimo gusto. Perché ho trovato la cosa estremamente disgustosa.

Ho trovato disgustoso il grasso ghigno dell'ironia mostrato in faccia alle incolpevoli vittime della stupidità altrui, in faccia ai parenti che non potranno riabbracciare più. Come quella mamma che in un colpo solo ha perso il marito e la figlia di cinque anni (e mentre scrivo non hanno ancora ritrovato i corpi). Andate sotto casa sua, suonate il citofono e ditele, sorridendo, "tonno nostronzo! ahahahahah!"

Ditele che "sì, è vero, sono cattivissime (le battute) ma bisogna ironizzare anche sulle tragedie." Ma per favore. Non arrivo ad essere così crudele da augurarvi che vi possa capitare la stessa cosa (anche se, devo ammettere, il pensiero mi è venuto), ma vi chiedo per lo meno di mettervi nei panni di questa donna, o del padre, o della madre, o del fratello o sorella di uno dei morti o - peggio ancora - dei dispersi, c'è solo l'imbarazzo della scelta, ce n'è quasi una trentina tra cui scegliere.

Poi, provate ad immaginare come vi sentireste. A dover piangere una perdità così assurda e ingiusta, e vedervi intorno un corteo di cretini che sghignazzano e saltellano. "Perché è giusto."

Forse non è fine evocare la presenza dei "morti" per chiedere silenzio e rispetto. Ricorda tanto Montanelli che zittiva la Merlin dopo il Vajont. Si corre il rischio di venir presi per guastafeste, pedanti, insopportabilmente seri. Ma ridere delle disgrazie altrui, farne materiale buono per il cabaret è aberrante, disumano.

Anzi, a pensarci bene forse è proprio umano, invece; perché reclamare il diritto a farsi beffe di qualsiasi cosa è un atteggaimento decisamente umano. Così umano che ormai è diventato la regola, specialmente su internet che dei fenomeni (dis)umani è diventata una grande vetrina. Come quando è morto Simoncelli, e sulla nonciclopedia è apparso il titolo: "Simoncelli è caduto ancora, ma promette di non rifarlo più."

Però, anche ai tempi in cui non c'era internet era uguale; il giorno dopo che il pilota di Formula 1 Nannini cadde con l'elicottero e si tranciò una mano, c'era chi faceva il gesto di reggere un volante, con una mano nascosta nella manica, dicendo: "vrooom! Vroom! Chi sono? Chi sono?"

C'è chi potrebbe pensare che si tratti di un fenomeno limitato ai nostri tempi. Devo deluderlo, non è così. Mi viene in mente un episodio legato ad un avvenimento successo moltissimi anni fa, il rapimento del "baby Lindbergh." Il figlio di 18 mesi del famoso trasvolatore venne rapito la notte del 1° marzo 1932; il rapitore utilizzò una scala di legno costruita artigianalmente per entrare nella sua camera al primo piano.

Venne chiesto (e pagato) un riscatto, ma il bimbo era già morto: la scala si era rotta durante la discesa, rapitore e bambino erano caduti e quest'ultimo era rimasto ucciso. Questa, molto in sintesi, è la storia.

Fu un caso che suscitò molto scalpore, sia per la notorietà del padre che per la "copertura giornalistica" che gli venne data; e, immancabilmente, ci furono persone che fiutarono immediatamente l'affare. Alcuni, dicendosi in contatto coi rapitori, si proposero come intermediari con l'evidente scopo di spillare quattrini, ma ci fu anche chi scogitò sistemi "legali." Già il giorno dopo il ritrovamento del corpicino, il cantante contry Bob Ferguson incise due canzoni (una delle due con un titolo veramente stucchevole, "c'è una nuova stella nel cielo").

Ma non basta: fuori dal tribunale dove si celebrava il processo al sospettato (un certo Bruno Hauptmann, che finì sulla sedia elettrica) c'erano dei personaggi che vendevano come souvenir le repliche in dimesioni ridotte della scala usata per il rapimento. Se non ci credete, le potete vedere nella fotografia. C'è poco da aggiungere: homo homini lupus.

giovedì 12 gennaio 2012

Mrs. Syuzee meets Mr. Death


Attenzione: il dialogo che segue contiene parecchie scurrilità. Non fatelo leggere ai bambini.

- Toc toc!
- Chi è? (azz, troppo tardi, m'è scappato).
- Stocazzo!
- (eh, appunto). Ciao.
- Ciao Syuzee.
- Ci conosciamo? (sopracciglio sollevato).
- No. Non ancora (risatina isterica)
- Hummm... cazzo hai da ridere?
- Niente, ridevo per la mia battuta.
- Quale battuta?
- Lascia perdere. Lo sai chi sono?
- Uhm. Vestito nero, viso pallido, fisico smagrito... cos'è quello, eye-liner? Sei un emo!
- Hahahahah! No.
- Ok. Allora sei un men in black.
- Nemmeno.
- Senti, ciccio. Non hai ancora rotto le palle, però una bella botta gliel'hai data.
- Ahahahahah! Questo non ti dice niente? (dalla tasca estrae una chiave d'argento. Attaccata alla chiave c'è un portachiavi, pure d'argento, a forma di piccola falce. Lo fa dondolare a 10 cm. dalla mia faccia).
- Aha! Sei un comunista!
- Manca il martello, cretina.
- Uh... senti, hai finito di fare misteri?
- Io, sono la MORTE! (fa il gesto teatrale di aprire le braccia come per spalancare un inesistente mantello).
- Ti facevo donna.
- Pure io ti facevo donna.
- Stronzo.
- Frocio.
- Uhm. E chi me lo dice che sei veramente la morte? (pronuncio la parola morte con voce tremolante, mentre imito il gesto teatrale).
- Guarda. (afferra con la mano un fiore da un vaso. Il fiore annerisce e si secca velocemente, perdendo i petali sul pavimento).
- Questo riesce a farlo anche un amico mio, con l'alito. (però sto iniziando a cagarmi sotto).
- Ha! (con una luce di trionfo negli occhi, come se avesse capito che mi sto cagando sotto).
- E quindi?
- Niente. Sono venuto a dirti che sei morta.
- Uao. Di cosa? (sento freddo alla fronte).
- La mousse al salmone. (puntando il dito ossuto verso il tavolo).
- La mousse al salmone?!?
- La mousse al salmone.
- Ma vaffanculo, stronzo!!! Quelli sono i Monty Python, e poi io non l'ho neanche mangiata la mousse al salmone!!!! (senza rendermi conto che anch'io sto citando i Monty Python).
- AHAHAHAAHAHAH! (si asciuga una lacrima uscita per il troppo ridere). La sai la barzelletta dei due gay che scopano, no? "volevo solo farti stringere il buco del culo." AHAHAHAHAHAHAH!
- Ma chi cazzo sei, la morte o il presidente del consiglio?
- Whew! Avessi visto la tua faccia! E' da quando mi son portato via Leslie Nielsen che non mi facevo una risata così.
- Come no. Periodaccio eh?
- Puoi dirlo forte. Sai che cazzo di lavoro in Tunisia, Libia, Egitto... E adesso anche in Siria.
- Senti, cazzo sei venuto a fare? A parlarmi della Siria?
- No. Mi annoiavo. Son passato a fare quattro chiacchiere.
- Hmmm... del tipo?
- Che ne so... non vuoi domandarmi qualcosa? Cazzo, hai davanti la morte! Anzi, la Morte con la emme maiuscola! Possibile che non ti venga in mente niente?
- ...
- E non chiedermi di sapere quando morirai. Tanto non te lo dico.
- Perché no?
- Facciamo che ti dico che morirai tra tre mesi - e bada che non lo sto dicendo, è solo un'ipotesi. Come vivresti questi tre mesi, sapendo che sono gli ultimi? Sai che angoscia?
- Già. Molto meglio non saperlo, e buttare via i miei ultimi tre mesi a fare un cazzo.
- Non ci provare che tanto non te lo dico. Eppoi tranquilla che non sono tre, i mesi. Sono due.
- Eeeehhh???
- Ahahahahahahahahaah! Eddai, non ci cascare ogni volta!!
- Gesucristo.
- Superstar. E non vale nemmeno chiedere se c'è la vita dopo la morte. Cioè, dopo me.
- Tanto quello lo so già da sola. Ci sono i lombrichi. Però, non ti si può proprio chiedere niente! Allora a cosa cavolo servi?
- Ha. Ha. Ha. A cosa servo, dici? Eppure dovresti saperlo.
- Dovrei saperlo? Io???
- Certo. Non sei un essere umano, tu?
- I leghisti direbbero di no. E anche la Mussolini.
- Bah! Siete voi, i cosiddetti umani, che mi avete creato. Avete cercato di dare forma e sostanza ad una cosa che è soltanto UNO dei momenti della vostra vita. Hai mai visto, che so, la personificazione della nascita, del matrimonio, del compleanno, o dei calli?
- Il natale c'è.
- Prego?
- Leggiti Dickens, Cantico di natale. Il Natale passato, il Natale futuro, quelli lì che vanno a trovare il signor Scrooge.
- Quelli erano fantasmi.
- Sicuro?
- Sì.
- Uhm. (pensosa). Te l'ho già detto che mi stai sulle palle?
- No, ma me l'immaginavo. E' un effetto che faccio a molti. Comunque: per quelle cose lì non sentite il bisogno di creare una controfigura, vero? Della morte invece sì. Perché?
- Immagino che adesso me lo dirai.
- Cagasotto.
- Stronzo.
- Nono, siete proprio dei cagasotto. Voi umani. Fifoni, lamentosi, vigliacchi. Non riuscite ad accettare che la morte in fondo è un momento come un altro. Quanti ne ho visti, implorare un giorno in più, un'ora in più, un minuto in più. E allora avete bisogno di me, per esorcizzarmi.
- Certo, come no. Una porta per un'altra vita, il passaggio da una dimensione ad un'altra... ma piantala.
- Lascia stare tutte quelle cagate cattolico-new age alla Rosemary Altea. Tu pensi che all'universo importerà qualcosa quando non ci sarai più? Ai mille miliardi di creature sparse nel cosmo, nel corso di mille miliardi di anni? Pensi di aver lasciato un'impronta così indelebile nel tuo tempo?
- Beh, spero che qualcuno senta la mia mancanza. Quelli che mi vogliono bene.
- Già, e morti anche loro non ci sarà più nessuno a ricordarsi di te.
- Solo quelli del canone RAI.
- Bella roba.
- Aspetta! (improvvisamente mi illumino). Dici che ti abbiamo creato noi? (speranzosa).
- Certo.
- Anch'io ho contribuito?
- Beh, se anche tu ci credi, sì. Come Campanellino, la fata di Peter Pan.
- Huh. E allora se dico che non ci credo più, sparisci?
- No. Ma adesso me ne vado per conto mio, perché mi sono rotto. (inizia a svanire). Tanto prima o poi ci rivediamo.
- Fottiti.
- Fottiti tu, frocetta.
- Magari! (ma oramai è sparito).