mercoledì 1 agosto 2012

Bologna, o il dito della Storia


C'è un vizio, che come tanti altri, è tipicamente italiano. E' il vizio della commemorazione, della ricorrenza. Succede qualcosa, generalmente di grave, e l'anno dopo scatta la commemorazione. Si vede un servizio in tv, ci si ricorda, si pensa: "caspita, è già passato un anno!", due commenti al caffè, uno al telefono, e dopo cinque minuti tutto ritorna nel dimenticatoio.

Con anniversari particolari come decennali e multipli funziona ancora meglio, la celebrazione è più corposa, magari ci scappa anche la corona di fiori del presidente; finché un giorno di moltissimi anni dopo, la tv passa un servizio a metà tra la curiosità e l'amarcord dove si dice che l'ultimo sopravvissuto è morto di vecchiaia, musichetta di sottofondo sdolcinata e malinconica, e stop. Tutto finito. Se ne riparlerà se e quando la cosa arriverà sui libri di storia.

Non posso in tutta sincerità ammettere di essere immune da questo vizio. Ma oggi no, rivendico la mia originalità. Il post che state per leggere è stato scritto mesi e mesi fa, lontano da qualsiasi anniversario. Poi è rimasto, incompiuto, nel cassetto in attesa di una giusta conclusione che stentava ad arrivare. Poi, la svolta, la conclusione. E per una di quelle circostanze curiose ed imperscrutabili della vita, il post è stato terminato proprio nel momento esatto in cui si celebra la ricorrenza dell'evento di cui parla.


A Bologna, e ai bolognesi
di Syuzee, 2012
Qualche tempo fa, durante uno dei miei ormai rari viaggi in treno,  sono scesa alla stazione di Bologna. A Bologna c'ero già stata altre volte ma sempre in macchina, mai in treno. Scendendo dal vagone sapevo di avere un appuntamento. Non era segnato in nessuna agenda, però sapevo di averlo.

Ci sono episodi che lasciano un segno particolare nella cosiddetta "coscienza collettiva." Ad esempio, tutti si ricordano dov'erano e cosa stavano facendo l'11 settembre, quando ci fu l'attacco alle torri gemelle. Anche la strage di Bologna ha lasciato uno di questi segni, simile ma diverso.

Se lo chiedi, quasi nessuno si ricorda la data esatta. Quasi nessuno a parte quelli che abitano a Bologna e nei paesi dove a quella strage hanno dedicato una via o una piazza. Alcuni ci pensano un po' su, e poi si ricordano che era d'estate, perché molte delle vittime stavano andando in vacanza.

Quello che però è particolare di questo evento è che quasi tutti ne sono stati toccati, più o meno da vicino, più o meno direttamente. Tutti hanno avuto un amico, un parente, un vicino di casa che è passato per quella stazione il giorno prima, o un'ora prima, o addirittura ha perso "quel" treno e perciò si è salvato. Questa cosa è talmente diffusa e comune da essere emblematica, da seganre questo particolare episodio più di altri, simili, accaduti prima e dopo in Italia.

Mio cugino per esempio. Passò di lì in treno il giorno prima, e si salvò. Solo ventiquattr'ore di differenza per continuare a vivere o per finire in un elenco. Era agosto, sabato 2 agosto 1980. A quei tempi d'agosto le città si spopolavano, mica come oggi. Si lavorava l'ultima settimana di luglio con l'occhio che bruciava famelico i giorni sul calendario, il venerdì sera si preparavano i bagagli e il sabato mattina finalmente si partiva per il mare, per la montagna. Pochi fortunati in aereo, i più in macchina, e in treno. Doveva essere una cosa normale. Avrebbe dovuto essere una cosa normale.

Io all'epoca avevo dieci anni appena compiuti, e abitavo al nord, lontano da Bologna. Per questo motivo avvertii la tragicità della cosa in maniera indistinta, sfumata, senza riuscire a cogliere dei dettagli precisi, così confusi nel bianco e nero del telegiornale.

Sedici anni dopo, per caso, sfogliai un libro fotografico dedicato alla strage. Vidi, con occhi nuovi e come se fosse per la prima volta, le foto della stazione che l'esplosione aveva reso anormale, asimmetrica, il piazzale ingombro di macerie, camion, gru, ambulanze, soldati e comuni cittadini, i visi impolverati solcati da lacrime di sudore e lacrime vere, che frugavano tra i cumuli di travi e mattoni.

Il treno fermo al primo binario, coi finestrini rotti e quel che si immaginava all'interno, e ciò che invece si vedeva fin troppo chiaramente sui binari; il prete che, dentro un autobus davanti alla stazione, benediceva qualcosa coperto da un lenzuolo bianco.

E poi la manifestazione cittadina spontanea, quella sera stessa, un fiume di persone "che non ci stavano", con il cuore gonfio di dolore e rabbia, figli e figlie di quella che Guccini l'anno dopo avrebbe definito, cantandola,  Bologna la grassa e l'umana.

Non so perché, ma i bolognesi mi sono stati sempre istintivamente simpatici. Li ho sempre pensati spensierati, allegri, gente che non si fa troppi problemi o menate, ma che all'occorrenza sa distinguere il serio dal faceto e, soprattutto, ha una coscienza e senso di giustizia. Tutti i bolognesi che ho conosciuto finora sono così, forse ho ragione oppure sono stata fortunata.

Eccomi qua, davanti all'epicentro o, come lo chiamerebbero oggi, ground zero. La lapide coi nomi, la colonna sbrecciata, la crepa nel muro, simbolica ma mica tanto. E poi il pavimento dove era appoggiata la valigia con dentro l'esplosivo.

Ti guardi intorno, e ti sembra incredibile pensare che trentuno anni fa in quel posto è entrata violentemente la storia, che lì volavano travi e mattoni, schegge di vetro, effetti personali, corpi umani. Ventitre chili di esplosivo, ottantacinque persone.

Il punto esatto dell'esplosione, sul pavimento, è marcato da un avvallamento profondo qualche centimetro prodotto dall'onda d'urto. Le tesserine di ceramica tutt'intorno sono state smosse e stampate nel suolo da una pressione inconcepibile. Come se un gigantesco pollice, di dimensioni e forza sovrumane, fosse piombato dal cielo per imprimere lì la sua impronta.

E, contemporaneamente, strappare tutta quella gente alla sua vita normale, ai suoi affetti, al suo destino. Il dito della Storia, forse. Il dito degli uomini.

Chiudo con un commento del mio amico Lawen, bolognese:
"Io vorrei solo non essere italiano, vorrei poter guardare tutto questo, e altro, col distacco a volte un po' cinico dello spettatore che si emoziona ma può sempre pensare «in fondo tutto questo non mi riguarda, è un Paese di pazzi».

Ma italiano mio malgrado lo sono, l'odio verso chi ha fatto queste cose, verso chi ha permesso che fossero fatte, verso chi le ha coperte, lo provo. E il dolore mi lacera, ancora oggi."