lunedì 27 gennaio 2014

Il giorno della memoria, again



Nei giorni appena trascorsi ho iniziato a leggere un libro, Le benevole di Jonathan Littell, del quale avevo sentito parlare parecchio tempo fa in non mi ricordo quale programma tv. Siccome sono ancora all'inizio del libro non posso dirvi se mi è piaciuto o no, però devo ammettere che ha sollevato in me un dubbio. Si tratta di uno di quei dubbi sopiti che tutti abbiamo e che ogni tanto si risvegliano, brevemente, prima di essere rimessi subito a nanna per paura di farci trascinare da loro chissà dove. Perché si tratta di interrogativi che ci vanno a toccare in quelle che sono le nostre zone grigie, i nostri ventri molli, che ci mettono di fronte a delle realtà che di solito preferiamo ignorare, perché potrebbero rivelare una parte di noi che non conosciamo o, peggio, che non vorremmo né conoscere né possedere.

Un luogo abbastanza comune è quello che dice che i gerarchi nazisti erano comunque buoni padri di famiglia. E infatti le loro porcate le facevano ai figli degli altri, mica ai loro - se escludiamo il buon Dott. Goebbels che, messo di fronte alla disfatta del Reich millenario, assieme alla moglie narcotizzò i suoi sei figli - tra i 4 e i 12 anni di età - prima di rompere una fiala di cianuro nelle loro bocche, e poi spararsi. E però in parte quest'affermazione è vera: non possiamo sbagliare come fecero i nazisti (e anche altri, se è per quello) e criminalizzare un intero popolo, è assurdo ritenere che tutti coloro i quali furono coinvolti direttamente o indirettamente nella "soluzione della questione ebraica" fossero completamente pazzi, psicopatici, maniaci omicidi. Sicuramente qualcuno c'era, come l'Amon Goeth comandante di campo di concentramento così fedelmente ritratto da Spielberg nel suo Schindler's List. Ma gli altri?

Le SS arrivarono ad essere quasi un milione. Un milione. Erano tutti sociopatici assassini? E quelli che vivevano vicino ai campi di concentramento, quelli che vedevano passare i treni, tutti quelli che sapevano e non hanno fatto niente? Ma siamo poi sicuri di essere tanto diversi da loro? Ho potuto ascoltare di persona i racconti di alcuni reduci delle "missioni di pace" italiane in Libano e Somalia, e - al di là delle spacconate di cui certo erano infarciti - ho notato in quei racconti un costante spregio per la vita umana altrui. Ma del resto ogni guerra (anche quelle camuffate da peacekeeping operation) è una questione di mors tua, vita mea, difficile poter pretendere diversamente.

Queste persone se fossero messe in condizione di dover ammazzare da sole un pollo o un vitello per cuocerne la carne diventerebbero vegetariani all'istante; ma mettetegli un FAL in mano e un insurgent armato di fronte, e vedrete se saprà premere il grilletto, come quel mitragliere di autoblindo che si è vantato di fronte a me di aver azzerato un villaggio somalo piuttosto che rischiare di saltare per aria. E giustamente, qualcuno di voi dirà sotto sotto. E allora provate a pensare di essere nella Germania del 1935, e di vedere i vostri vicini ebrei venire portati via. Vi opporreste? Scendereste in strada a protestare, magari col rischio di venire presi a vostra volta, e lasciare senza sostegno la vostra famiglia, i vostri figli, i vostri genitori? E se invece proprio a voi venisse ordinato di prendere e portare via i vostri vicini ebrei?

Queste mie parole non vogliono essere in assoluto, in nessun modo - se potessi lo griderei - una giustificazione per quanto è accaduto. Non me la sento di difendere gli aguzzini  e quelli che li hanno incoraggiati, voglio solo puntare il dito verso una di quelle zone grigie, come dicevo all'inizio, che a volte non sappiamo nemmeno di avere. E adesso buona lettura, e buona riflessione.


da Le benevole di Jonathan Littell (2006)

"(...) già da tantissimo tempo il pensiero della morte mi è più vicino della vena del collo, come dice quella bella frase del Corano. Se mai riusciste a farmi piangere, le mie lacrime vi sfregerebbero il viso come vetriolo. (...)

Poiché sulla terra vi è più dolore che piacere, ogni soddisfazione è solo transitoria, e crea nuovi desideri e nuove miserie, e la sofferenza della preda è più grande del piacere del predatore. Si, lo so, le citazioni sono due, ma l’idea è la stessa: in verità, viviamo nel peggiore dei mondi possibili. Certo, la guerra è finita. E poi abbiamo imparato la lezione, non accadrà più. Ma siete proprio sicuri che abbiamo imparato la lezione? Siete sicuri che non accadrà più? Siete sicuri, addirittura, che la guerra sia finita? Per certi versi la guerra non è mai finita, oppure sarà finita solo quando l’ultimo bambino nato l’ultimo giorno di combattimenti morirà di morte naturale, e anche allora continuerà, nei suoi figli e nei figli dei suoi figli, fino a quando finalmente l’eredità si diluisca un poco, i ricordi si sfilaccino e il dolore si attenui, anche se in quel momento tutti avranno dimenticato da un bel pezzo, e tutto sarà da tempo relegato fra le vecchie storie, buone nemmeno a spaventare i bambini, e ancor meno i bambini dei morti e di chi avrebbe desiderato esserlo, morto intendo dire.

Indovino cosa pensate: Ecco un uomo davvero malvagio, vi state dicendo, un uomo perfido, insomma, un farabutto sotto tutti gli aspetti, che dovrebbe marcire in prigione invece di infliggerci la sua confusa filosofia da ex fascista pentito a metà. Quanto al fascismo, non confondiamo tutto, e quanto alla mia responsabilità penale, non giudicate prematuramente, non ho ancora raccontato la mia storia; quanto alla mia responsabilità morale, consentitemi alcune considerazioni.

I filosofi politici hanno spesso fatto osservare che in tempo di guerra il cittadino, maschio perlomeno, perde uno dei suoi diritti più elementari, il diritto di vivere, e questo a partire dalla Rivoluzione francese e dall'invenzione della leva obbligatoria, principio ora universalmente ammesso, o quasi. Ma hanno raramente notato che questo cittadino perde al tempo stesso un altro diritto, altrettanto elementare e forse per lui ancor più vitale, per quanto riguarda l’idea che si fa di se stesso come uomo civilizzato: il diritto di non uccidere. Nessuno chiede il tuo parere. L’uomo in piedi sopra la fossa comune, nella maggior parte dei casi, non ha chiesto di trovarsi lì, proprio come chi giace, morto o morente, in fondo a quella medesima fossa.
Mi obietterete che uccidere un altro soldato in battaglia non è lo stesso che uccidere un civile disarmato; le leggi della guerra permettono la prima cosa, ma non la seconda; e così pure la morale comune. Un buon argomento in astratto, certo, ma che non tiene assolutamente conto delle condizioni del conflitto in questione.

La distinzione del tutto arbitraria stabilita dopo la guerra fra le «operazioni militari» da una parte, equivalenti a quelle di qualunque altro conflitto, e le «atrocità» dall'altra, perpetrate da una minoranza di sadici e di pazzi, è, come spero di dimostrare, un fantasma consolatorio dei vincitori - dei vincitori occidentali, dovrei precisare, perché i Sovietici, nonostante la loro retorica, hanno sempre capito di che cosa si trattasse: dopo il maggio 1945, e dopo le prime pantomime per fare un po’ di scena, Stalin se ne fregava totalmente di un’illusoria «giustizia», voleva roba solida, roba concreta, schiavi e macchine per rialzare la testa e ricostruire, non rimorsi o lamentazioni, poiché sapeva bene quanto noi che i defunti non sentono i pianti e che i rimorsi non sono mai serviti ad arricchire la zuppa.

Non difendo il Befehlsnotstand, l’obbligo di obbedire agli ordini tanto apprezzato dai nostri bravi avvocati tedeschi. Ciò che ho fatto, l’ho fatto con piena cognizione di causa, pensando che si trattasse del mio dovere e che dovesse essere fatto, per quanto sgradevole e increscioso fosse. La guerra totale è anche questo: il civile non esiste più, e tra il bambino ebreo gasato o fucilato e il bambino tedesco morto sotto le bombe incendiarie c’è soltanto una differenza di strumenti; quelle due morti erano altrettanto inutili, nessuna delle due ha abbreviato la guerra, neppure di un secondo; ma in entrambi i casi l’uomo o gli uomini che li hanno uccisi credevano che fosse giusto e necessario; se hanno avuto torto, a chi dare la colpa? (...)

Ciò vale anche per il caso in cui un uomo appoggi il fucile al cranio di un altro uomo e tiri il grilletto. Poiché la vittima è stata portata lì da altri uomini, la sua morte è stata decisa da altri ancora, e anche chi spara sa di essere soltanto l’ultimo anello di una lunghissima catena, e di non doversi porre più domande del membro di un plotone che nella vita civile giustizia un uomo debitamente condannato dalla legge.
Chi spara sa che è un caso che sia lui a sparare, che un commilitone faccia parte del cordone di sicurezza mentre un terzo guida il camion. Tutt'al più potrà tentare di scambiarsi di posto con la guardia o con l’autista.

Un altro esempio, tratto dall'abbondante letteratura storica più che dalla mia personale esperienza: il programma di sterminio delle persone affette da handicap grave e dei malati di mente tedeschi, il cosiddetto programma «Eutanasia» o «T-4», istituito due anni prima del programma «Soluzione finale». In questo caso, i malati selezionati nel quadro di un dispositivo legale erano accolti in un edificio da infermiere professionali che li registravano e li spogliavano; dei medici li esaminavano e li accompagnavano in una stanza sigillata; un operaio somministrava il gas; altri ripulivano; un poliziotto redigeva il certificato di morte.

Interrogati dopo la guerra, ognuno di loro dice: Colpevole, io? L’infermiera non ha ucciso nessuno, si è limitata a spogliare e tranquillizzare degli ammalati, gesti comuni della sua professione. Nemmeno il medico ha ucciso, ha semplicemente confermato una diagnosi secondo criteri stabiliti da altre istanze. L’operaio che apre il rubinetto del gas, quindi colui che è più vicino all’omicidio nel tempo e nello spazio, svolge una funzione tecnica sotto il controllo dei suoi superiori e dei medici. Gli operai che sgomberano la stanza compiono un necessario lavoro di bonifica, per di più assai ripugnante.

Il poliziotto segue la sua procedura, che è quella di constatare un decesso e annotare che ha avuto luogo senza violazione delle leggi in vigore. Chi dunque è colpevole? Tutti o nessuno? Perché l’operaio addetto al gas sarebbe più colpevole dell’operaio addetto alle caldaie, al giardino, ai veicoli? Lo stesso vale per tutte le sfaccettature di quell’immensa impresa. Chi manovra gli scambi della ferrovia, per esempio, è forse colpevole della morte degli ebrei che ha avviato verso un campo di concentramento? Quell'operaio è un funzionario, fa lo stesso lavoro da vent'anni, convoglia i treni in base a un piano, non è tenuto a sapere che cosa contengono. Non è colpa sua se quegli ebrei sono trasportati da un punto A, attraverso il suo scambio, a un punto B dove vengono uccisi.

Eppure quell'operaio svolge un ruolo cruciale nel lavoro di sterminio: senza di lui il treno di ebrei non può giungere al punto B. Lo stesso vale per il funzionario incaricato di requisire appartamenti per i senzatetto vittime dei bombardamenti, per il tipografo che prepara gli avvisi di deportazione, per il fornitore che vende cemento o filo spinato alle SS, per il sottufficiale del genio che fornisce benzina a un Teilkommando della SP, e per Dio, lassù, che permette tutto questo.

Ovviamente, si possono definire livelli di responsabilità penale relativamente precisi, che permettano di condannare certuni e lasciare tutti gli altri alla loro coscienza, sempre che ne abbiano una; è tanto più facile quando si redigono le leggi dopo i fatti, come a Norimberga. Ma anche in quel caso ci si è mossi un po’ a casaccio. Perché impiccare Streicher, quel bifolco impotente, ma non il sinistro von dem Bach-Zelewski? Perché impiccare il mio superiore, Rudolf Brandt, e non il suo, Wolff? Perché impiccare il ministro Frick e non il suo sottoposto Stuckart, che faceva tutto il lavoro per lui? (...) Ancora una volta, siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o di quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione, comunque in un modo o nell'altro.

Penso che mi sia permesso concludere come un fatto assodato dalla storia moderna che tutti, o quasi, in un dato complesso di circostanze, fanno ciò che viene detto loro di fare; e, scusatemi, non ci sono molte probabilità che voi siate l’eccezione, non più di me. Se siete nati in un paese o in un epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace.

Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui incomincia il pericolo. Ci si compiace di contrapporre lo Stato, totalitario o meno, all'uomo comune, cimice o giunco. Ma così si dimentica che lo Stato è fatto di uomini, tutti più o meno comuni, ognuno con la propria vita, la propria storia, la serie di casualità che hanno fatto sì che un giorno si ritrovasse dalla parte giusta del fucile o del foglio di carta mentre altri si ritrovavano da quella sbagliata.

Dire che la grande maggioranza di quanti hanno gestito le procedure di sterminio non erano dei sadici o degli anormali è un luogo comune, adesso. Di sadici, di pazzi, ce ne sono stati, ovviamente, come in tutte le guerre, e hanno commesso atrocità indicibili, è vero. Ed è altrettanto vero che le SS avrebbero potuto intensificare gli sforzi per controllare quella gente, anche se hanno fatto più di quanto non si pensi abitualmente; e non è un’ovvietà: andate a chiederlo ai generali francesi, avevano un bel po’ di grane, in Algeria, con i loro alcolizzati, violentatori, assassini di ufficiali.

Ma non è questo il problema. Di pazzi ce ne sono ovunque, sempre. I nostri tranquilli sobborghi pullulano di pedofili e psicopatici, i dormitori pubblici di maniaci megalomani: certi diventano effettivamente un problema, uccidono due, tre, dieci, addirittura cinquanta persone - poi quello stesso Stato che si servirebbe di loro senza batter ciglio in una guerra li schiaccia come zanzare gonfie di sangue. Quegli uomini malati non sono niente. Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato - soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero pericolo per l’uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti, inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me. Come la maggior parte della gente, non ho mai chiesto di diventare un assassino.

Se avessi potuto, l’ho già detto, mi sarei occupato di letteratura."

sabato 25 gennaio 2014

In ricordo di A.

Pubblico qui di seguito un mio brano che ho recuperato da un sito che ho abbandonato, per cui può essere che qualcuno di voi lo abbia già letto.


In ricordo di A.
di Syuzee, maggio 2012

Sarà stato il 1984 o il 1985. Rincasavo dal liceo, verso mezzogiorno, e il percorso mi portava a incrociare la mia vecchia scuola elementare. Quel giorno di primavera ti vidi per la prima volta, mentre due ragazzini, due bulletti, ti stavano dando il tormento. Eri magrolino, biondiccio, pallido e lentigginoso, un tipico nerd insomma, di quelli che è un piacere torturare.

Due contro uno, proprio una bella cosa; e lo so bene, perché sarà successa anche a me almeno un milione di volte. E mai nessuno a darmi una mano, a soccorrermi: i bulli sono vigliacchi ma furbi, sanno scegliere bene il momento. Ma non quella volta, infatti passai io.

Non ricordo cosa dissi, ma minacciai, fisicamente e verbalmente; i due bulletti si presero una bella strizza, mollarono il colpo e sparirono come razzi. Non mi sembrava vero. Tornammo a casa insieme, con sorpresa ci accorgemmo di fare la stessa strada perché tu da poco eri venuto ad abitare nel mio cortile, e io ancora non lo sapevo.

Ci conoscemmo così, mentre tu mi camminavi a fianco con un sorriso timido e un po' triste, come se ti sentissi predestinato ad essere vittima dei prepotenti, una sensazione in parte mitigata dalla soddisfazione di avere finalmente un "amico grande", una sorta di fratello maggiore temporaneo (tu eri figlio unico) che almeno per una volta ti aveva salvato il culo.
E io mi sentivo bene per averti evitato qualcosa che, per le troppe esperienze personali identiche, sapevo essere molto sgradevole. Il dubbio di aver fatto male non mi ha mai sfiorato, in tutti questi anni.

Capitò qualche volta di rivederci brevemente in cortile, ma avevamo troppi anni di differenza e poi io ormai non giocavo più. Non ci incrociammo più fuori dalla scuola, e spero che i bulletti abbiano smesso di darti fastidio, anche se so che si tratta di una beata speranza.

Eri sempre più pallido. Mia mamma, che parlava con la tua, mi disse che ti era venuto un tumore alle ossa. Dovettero amputarti una gamba per cercare di salvarti; in cambio i tuoi genitori ti regalarono una motocicletta, un cinquantino da cross (eri ancora minorenne) su cui stavi correndo, felice, l'ultima volta che ti vidi. Una moto, lo so, non è la giusta ricompensa per la perdita di una gamba a quindici anni, ma per te andava bene lo stesso; lo si capiva da quel sorriso timido e un po' triste che avevo imparato a conoscere, e che si vedeva sul tuo viso magro e pallido.

Quando te ne andasti tua madre non lo disse a nessuno. Nessuno andò al funerale (se poi si fece), e tu fosti cremato in fretta. Ricordo ancora lo sgomento di quando lo venimmo a sapere, dopo che tutto era successo. Questione di scelte, più passa il tempo e più mi convinco che tua madre fece bene a fare così, ma non voglio spiegarne adesso il motivo. Questione di scelte, basta e avanza.

Non ho mai trovato il coraggio di raccontare a tua mamma di quella volta che ci siamo conosciuti, non ho voluto che sapesse che i tuoi compagni ti davano addosso, anche se forse se lo immaginava lo stesso. Ne ha avute abbastanza, tra la perdita dell'unico figlio e il quasi automatico divorzio subito dopo, come capita tante volte in questi casi.

Però, quando ripenso a quel giorno di primavera, a quell'unica volta in cui ho evitato un torto di quel genere, continuo a ripetermi di aver fatto bene anche se alla fin fine non è servito a niente, forse solo a me.