martedì 21 giugno 2011

Nascita di una Mistress


Una delle cose più interessanti del "nostro" mondo è quella di conoscere il modo in cui qualcuno è arrivato ad essere così com'è. Quali turbamenti, esperienze, incontri hanno contribuito ad essere ciò che siamo? E se le nostre esperienze passate fossero state diverse, lo saremmo anche noi, oggi?

Ho sempre considerato LadySweetLash, la più amica delle mie amiche, non per il ruolo dominante che rappresenta (che pure è decisamente connaturato nel suo animo, cosa che lei nega spudoratamente), un errore questo che in troppi commettono, ma per la persona che è, al di sopra di giudizi e opinioni.

Un giorno mi sono accorta che non avevo idea di come fosse "nata", ne di come avesse scelto il proprio "soprannome". La scelta del soprannome è un momento importantissimo perchè, come sostiene Le Carre, rivela molto di quel che vorremmo essere e quindi di quello che siamo.
Questo processo di "rivelazione" per mezzo del soprannome si ha, il più delle volte, "per sottrazione"; dato che l'essere umano medio tende generalmente ad esagerare quando si attribuisce un nome d'arte, ostentando poteri o qualità inesistenti, è sufficiente spogliarlo di queste millanterie per ricavarne l'essenza nuda.

E' una cosa più facile a farsi di quel che si creda, ma non è certo questo il caso di LSL; e se provate a fare con lei questo giochetto vi ritroverete quasi certamente i segni della sua sferza sulla schiena, in senso metaforico e non.
Sapevo che sarebbe stato difficile, se non impossibile, avere questa "confessione" da lei, per via di un certo tipo di riservatezza su alcune delle cose che la riguardano; confesso di averla blandita e lusingata molto oltre la mia naturale tendenza, perchè ero certa che ne sarebbe uscito un documento eccezionale, che finalmente da una risposta all'eterno quesito: come nascono le Mistress?

Enjoy.


A Mistress Story
di LadySweetLash (2011)

Quando mi è stata chiesta la genesi del mio ruolo, sono rimasta basita: non ho mai pensato fosse importante, non al punto da essere raccontata. Eppure, giorno dopo giorno, quest'idea solleticava il mio ego tutt'altro che ipertrofico, mi titillava la sensazione che, pur non essendo una storia solo mia, doveva e voleva nascere come quei testardi fiori di cactus del deserto del Mojave, vicino alle alture del Sangre de Christo.

Da ragazzina non amavo quei filmoni comunemente definiti “in costume” o “pepli” per l'attinenza storica, ma da sempre il Cleopatra di Cecil B. DeMille è il mio preferito, l'alterigia di Liz Taylor e quel profilo da antico romano sassone di Richard Burton, i costumi e le scenografie mi trasportavano in quell'epoca che ho sempre amato, nel mio piccolo studiato. E pur non avendo il phisique du role mi calavo nei panni di una delle Regine più colte e più tragiche del mondo antico, non una guerriera pacificatrice come Hatshepsut, non una meraviglia come Nefertiti.

Colta, disinibita, astuta, intelligentissima, Cleopatra ero io. L'idea che qualcuno provasse una qualsiasi emozione legando, imbavagliando, frustando, e per un certo verso stuprando la mente altrui mi scavava come un tarlo.

Volevo sapere, volevo conoscere, volevo CAPIRE.

Chiesi ad un amico di Udine come potevo avvicinarmi a quel mondo del quale neppure, allora, conoscevo il nome, quel pianeta sconosciuto che ho sempre accostato non al proibito ma alla prevaricazione, senza crederci. Mi diede un paio di indirizzi di siti, mi ci iscrissi, li esplorai, e fu allora che iniziai a sentire sotto pelle un fremito, un brivido da tempo tenuto nascosto, eppure così confuso, nebuloso.

Più proseguivo l'approfondimento, più ne restavo irretita. Così, basandomi sui miei trascorsi di vita, sui precedenti, “scelsi” il mio primo ruolo, che in quel pianeta era chiamato “schiava”. Tramite internet e quei siti conobbi uomini che si definivano Padroni o Dominanti, molti dei quali mi davano la sensazione di essere alla ricerca di emozioni forti per provare un piacere che si era affievolito.

Poi arrivò Marco, ligure, giovane. Ci parlammo a lungo, ci confidammo, mi sondò la testa e la mente, ed infine capì che avrebbe avuto una schiava che si riteneva tale solo per compiacergli, o per compiacere quegli stessi uomini che la snobbavano e deridevano i suoi rotoli di ciccia e la sua goffaggine, e quel vago sentirsi almeno 3 gradini sotto agli altri.

Marco mi aiutò a capire che non dovevo e non potevo scegliere un ruolo che non aveva niente a che fare con la mia natura tendenzialmente dominante e snob, che non potevo sottomettermi quando tutto il mio essere si sarebbe ribellato a quelle che, ancora allora, consideravo angherie.

Preferì rinunciare per farmi crescere, infine sbocciare, e rendermi quella che sono oggi. Mi regalò il disegno di un tatuaggio, le nostre iniziali così uguali, che porto alla caviglia destra, una M intrecciata ad un ramo di spine; per quanto ne so, l'abbiamo lui ed io.

Scelsi il nick che oggi mi rende conosciuta, lo pensai tre giorni, lo cercai sul vocabolario d'inglese, il termine arcaico di un tipo di fruste, lo staffile e lo scudiscio, la cui traduzione porta quasi tutti a declinarlo come “ciglia” mentre Lash ha altro significato. Lo feci precedere da sweet, “dolce”, perché sapevo che con le fruste avrei avuto un rapporto d'amore e di conoscenza che ne avrebbe fatto la mia caratteristica, ed il ruolo, Lady, che doveva immediatamente identificarmi come facente parte della Dominante.

LadySweetLash, acronimizzato in LSL, nacque così, e da allora me lo porto ovunque vado, esaltato ed infangato, famigerato e famoso, comunque sia mio.

Non c'è niente di trascendentale nella mia storia, milioni sono simili ad essa, mattone dopo mattone ho costruito e migliorato le mie capacità, tutt'ora prima di cominciare qualsiasi pratica nuova mi informo dove e come posso, non lo trovo affatto come uno sminuirsi, ma come un voler essere ben attenta nei confronti di coloro che si affidano a me.

La mia è una teoria quasi banale, ma mi piace pensare di essere non una regina ma una regista, mi piace sapere che io e solo io posso esaudire i desideri dell'altro i quali, spesso, sono gli stessi miei.

Dopo tanti anni, ancora adesso scopro sottigliezze che non avrei pensato esistessero, fermo restando rigidi paletti che non ho nessunissima idea di travalicare, primo fra tutti il mio benessere mentale.

La mia storia finisce qui. Crescerò di giorno in giorno, ho cominciato nell'ottobre del 2003 sbagliando il ruolo, continuerà sino a quando avrò forza e pazienza di cercare quel che voglio, e che so di volere.

LSL

giovedì 16 giugno 2011

Syuzee l'egiziana



Ho letto, tempo fa e da qualche parte, che agli antichi egizi non piacevano le novità, loro preferivano che le cose, le usanze, tutto restasse immutato per secoli e secoli. A volte ho l'idea di essere così anch'io.

Come dice Luca Carboni, ognuno ha un mare dentro al cuore. Il mio corrisponde ad una mezzaluna di sabbia circondata dalla montagna, nella riviera di levante, un luogo di cui è giusto e pio tacere il nome. Un posto come (forse) tanti, con le tipiche case coi trompe l'oeil, il fiume che sfocia esattamente nel centro della spiaggia, la passeggiata lungomare e la focaccia con la cipolla più buona dell'universo, non bassa e molle ma alta e croccante. Una barca da pesca, - il Lavagnin - l'unica sopravvissauta ad una folla di barchette e gommoni milanesi, e Tommaso, il suo padrone burbero e di pochissime parole.

La mattina presto, quando il Lavagnin tornava da una notte di pesca, c'era odore di catrame, c'era l'odore buono della nafta bruciata dall'argano che tirava la barca in secca, e del pesce appena pescato e ancora vivo, che lentamente moriva nelle cassette di legno. Ricordo di aver fissato negli occhi a lungo una cicala di mare, che sembrava respirare sempre più a fatica, provandone dispiacere ma sapendo che in fondo era giusto così (ho scoperto in più tarda età che squilla mantis ha due finti occhi sulla coda, in realtà avevo contemplato con pietà il sedere).

Ho una foto di me a tre o quattro anni, stivaletti di gomma gialla (li ricordo così e non so perchè, la foto è in bianco e nero) e sguardo per terra, sullo sfondo Tommaso che ha la smorfia amara dei liguri, da tanti scambiata erroneamente per un sorriso, la faccia tagliata da rughe profonde che non sono vecchiaia, sono ferite che solo il vento del mare può lasciare.

Ogni tanto Tommaso elargiva generosamente una sardina (le sardine sono il pane del mare) ad uno dei gatti che, ad un segnale invisibile ma preciso, erano venuti a riva e si tenevano a rispettosa distanza. Però non dava mai pesce ai turisti, che erano di solito più numerosi dei gatti ma meno disciplinati - e per questo disprezzati; unica eccezione mia mamma, perchè Tommaso mi aveva preso in simpatia, forse perchè anch'io come lui non sorridevo mai e avevo sempre l'aria seria e imbronciata.

All'estremità ovest della spiaggia c'era, ai miei tempi, un bunker di calcestruzzo della difesa costiera. Un residuato dell'ultima guerra, che a causa di quella stessa guerra era stato dapprima messo lì a guardare il mare, poi ignorato e infine dimenticato. Probabilmente non ha mai sparato neppure un colpo.

Esattamente sopra e dietro il bunker c'era un muretto massiccio, almeno un metro e mezzo di spessore, che costeggiava e infine chiudeva la passeggiata; e quando certe sere il mare giù in basso era brutto, brutto come solo il mar ligure sa essere, un mare da mettere al sicuro in fretta le barche nei giardinetti, era uno spettacolo stare li a guardarlo, quel mare nero e furibondo che si rompeva le corna contro il cemento, un assalto certamente mortale se non fosse stato per quel forte e bravo bunker e il suo muro.

Ma anche il mare sa prendersi le sue rivincite. Il suo lento lavoro di erosione, onda dopo onda, aveva pian piano scavato i piedi del bunker, facendolo progressivamente inclinare in avanti e sprofondare, tanto che la larga feritoia da cui un tempo sporgevano i cannoni - già allora inutili nella loro mortifera ferrosità e da tempo ormai finiti nella fornace della Storia - la feritoia, dicevo, era ormai a livello del mare e il mare infatti vi entrava dentro.

Era un buco basso e minaccioso, che ai nostri occhi di bambini prometteva di essere la porta d'ingresso di qualche oscuro antro infernale, pieno di crostacei pallidi e alghe viscide, certamente una trappola pericolosa e inesorabile, e per questo ne stavamo alla larga.

Ma sopra, sopra il bunker era il regno del sole e della luce, fatto di asciugamani e canne di pescatori, e di blocchi di frangiflutti gettati alla rinfusa da qualche ignoto e onnipotente gigante; il mare aveva lavato e rilavato quei cubi di calcestruzzo così tante volte da aver messo a nudo i sassi aguzzi intrappolati nel cemento, che per il fatto di essere appunto aguzzi e oltretutto arroventati dal sole torturavano doppiamente i piedi teneri di noi che osavamo calpestarli senza sandaletti.

Quei frangiflutti erano una sorta di colonne d'ercole; una volta oltrepassati si offriva alla vista una scogliera esclusiva e proibita, nel senso che non era per tutti, sicuramente non per noi che infatti ci andavamo di nascosto dagli occhi di mamma "perché era pericoloso", e una piccolissima baia di sassi, su cui il mare ributtava principalmente alghe, legni e plastica.

Non era certo un paradiso terrestre, e nemmeno una di quelle calette segrete la cui esistenza la gente del posto ti rivela sottovoce quando gli chiedi "un posto speciale" (ammesso che i liguri possano rispondere seriamente ad una domanda del genere, specie se fatta da un milanese).

C'erano scogli di tutti i tipi, in pietra nera e porosa, verde e occhiellata, di ardesia grigia e di porfido violetto. Ce n'era uno, mi ricordo, particolarmente liscio e levigato, un vero sollievo per dei piedi che ancora dolevano a causa dei sassi di cui sopra.

Quello scoglio benedetto aveva una punta protesa sul mare, e una specie di conchetta liscia che sembrava fatta apposta per sedercisi, un sedile naturale da dove, gambe a penzoloni, potevi ammirare l'orizzonte lontano dalla calca della battigia.

Quel bunker, che oggi non c'è più, non compare mai in nessuna foto. Ho provato a cercare su internet, si trovano foto di quasi ogni epoca, ma il bunker non c'è mai. Quella che vedete sopra è forse l'unica che lo ritrae parzialmente, in basso a destra, nell'agosto del '58. Forse era considerato un po' come un vecchio zio reduce e rimbambito, nostalgico del ventennio, residuato di un'epoca che si vorrebbe poter dimenticare ma che lui, con la sua sola presenza, continua a riportare alla memoria. O forse è sempre stato visto dai locali come un intruso, un corpo estraneo nel solco centenario della storia del paesino, per la colpa di essere stato costruito dai tedeschi durante l'occupazione.

Nelle cartoline non ce n'è mai stata traccia; quelle prese dalla punta orientale della baia erano sempre volutamente troppo distanti per permettere di distinguerlo, e se si avvicinavano facevano in modo di "tagliarlo". Le foto dall'estremità occidentale invece erano invariabilmente prese dall'alto, dalla cima della montagna soprastante, troppo in alto per poterlo inquadrare. Inoltre erano più interessate a ritrarre il cazzo di scoglio con il crocifisso, uno sputo di roccia che, visto di sguincio, si confonde così bene con la parete rocciosa retrostante che se vuoi vederlo (o peggio, andarci) devi andare a cercartelo. In quarant'anni e passa non ci ho mai messo piede.

Come ho detto, oggi il bunker non c'è più. Mi hanno raccontato che il padrone lo aveva barattato con il permesso di restaurare una casa, l'ultima del paese, che gli stava proprio dietro (è quella bianca che si vede in primo piano). Il vecchio bunker è stato demolito, e al suo posto c'è adesso una scalinata che porta in spiaggia. Niente più bunker, niente frangiflutti assassini, anche lo scoglio liscio non c'è più, probabilmente è stato spostato, ribaltato, reso inutile. Se il mare si fa brutto è meglio che stai a casa, non c'è più neanche il bel parapetto largo, ma solo un murettino largo meno di un palmo.

Non c'è più bisogno di spaccarsi i piedi sul calcestruzzo vecchio e smangiato, oggi alla caletta ci puoi arrivare anche in carrozzella (c'è infatti anche lo scivolo di cemento), ammesso che tu ci voglia andare. Ma se ci vai, lo fai a tuo rischio e pericolo; un cartello ti avverte che c'è la possibilità di crolli, perché la montagna - rimasta senza i suoi scarponi di calcestruzzo - può franare giù da un momento all'altro.

Anche il vecchio pescatore non c'è più, e il suo nome è stato dato alla zona d'alaggio dove una volta il Lavagnin tirava il fiato tra una notte e l'altra. E' stato così che ho scoperto finalmente che anche Tommaso aveva un cognome, leggendolo su un cartello già corroso dalla salsedine. Non ho avuto il cuore di chiedere dove fosse finita la barca.

Quel luogo oggi non esiste più, e questa cosa la vivrò sempre come una profonda ingiustizia, da vera egiziana. Forse avrebbero dovuto lasciare che il bunker pian piano si sgretolasse e finisse finalmente nell'abbraccio del suo eterno, liquido nemico. Così invece hanno sottratto, impedito al mare di prendersi la sua vendetta. Forse.

Senza il parapetto di protezione le mareggiate cattive adesso fanno il bello e il cattivo tempo, e difatti la scalinata mostra già i primi segni di cedimento. Anche la casa, restaurata, è già piena di crepe e pericolante perché, non potendo più rodere le fondamenta del bunker, il mare sta intaccando le sue.

Il mare sa prendersi le sue rivincite.

mercoledì 8 giugno 2011

Le raccomandazioni di una madre


Ieri sera ho sentito al telegiornale una notizia che mi avrebbe fatto ridere se non fosse stata da piangere. Mi ha ispirato il testo che segue, che ho scritto come divertissement alla maniera di Camilleri (peraltro molto indegnamente) per ovvi motivi - Manu, perdonami!


Tanuzzo mio beddro,

vado in chiesa che alle sett'albe c'è il rosario per la bonarma di Luciano u mezzunasu, ca la simana pasata fici resistenzia al posto di blocco e i carrabbinera l'astutarono con i mitra, mischineddru.

Ho detto a Yelena di non darti distrubbo fino alle undici; mi sono addunata che aieri a sira sei arricampato tardi, dopo che avevi abbrusciato la machina di quel curnutazzo dell'orefice ca nun voli pacari il pizzo... che pure Don Mario il parrino dice che quello è giudìo e che macari li giudìi devono pacare per aver inchiovato u signuruzzu in croci...

A proposito di pacare: ricordati che oggi bisogna darci la mesata a Yelena, sono oramà tre mesi che gliel'ho promessa, dagli duecento euri che bastano e superchiano. Se si mette a fare scarmazzo, devi dire a sta grannissima buttana che la mettiamo sul marciapiede precisa 'ntifica a sua sorella.

Ti ho lavato e stirato i jeans; i pizzini e le bustine che avevi nelle tasche te li ho ammucciati nel cascione del trumò, sotto le magliette pulite, assieme al revòrbaro novu novu che ti ha regaliato don Vito u porcunivuru.

Tano, quella benedetta pistola sciàura ancora di nuovo, si vede che non l'hai ancora adopirata... cerca di fare allenamento, per questo ci sono tanti cartelli stratali fora dal paìsi, e vedi di fari bella figura con don Vito e di ammazzarci presto qualichiduno...

E non fare come quel minchione del tuo compare Ninì u strazzapapere, che la portava nei cazuna e mentre era sul motorino ci è partito un colpo, che poi allo spitàli non sapiva come spiecari di essersi spirtusato i cabasisi... mi raccumannu, arma mia, tu usa la fondina che era del tuo poviro patre...

Tanino mio, la villa è tanto grande e io sono sempre a casa da sola, don Saro u carramugnu tiene una figlia, che dico, un angilu, una billizza, ca pari fatta apposta per riempiri la casa di picciliddri... Commare Memma dici che la vòli maritari ad un picciotto per beni e tu, in un paro d'anni, potresti diventare almeno capodecina, e forse un giorno addirittura capomandamento...

Arricordati che la mamma ti vòli beni e prega sempre la madunnuzza perché ti tenga lontano dal maligno e dai quei figli di buttanazza degli sbirri.


La mamma


Poscritto
Tanu beddru, quando nesci ricordati di pigliare la munnezza che il figlio di don Saverio crozzasicca ha aperto la nuova discarica abusiva, e macari noi dobbiamo darci una mano d'aiuto.

lunedì 6 giugno 2011

Tolleranza: no grazie


Quando si cerca di portare avanti un discorso politically correct su argomenti abbastanza "sensibili" - ad esempio: omosessuali, immigranti, etc. - una delle trappole in cui si rischia di cadere è la parola "tolleranza."

"Tolleranza" in questo ambito ha ormai perso il suo significato originale e ne ha assunto uno nuovo, che suona più o meno così: "cerchiamo di vivere tutti insieme, senza darci fastidio, perché siamo bravi e ci vogliamo bene e lo vogliamo far sapere a tutti quanti."

Invece, se ve lo ricordate bene, il senso originario era un altro, grossomodo: "sei qua ed effettivamente rompi anche un po' le scatole, ti trovo disgustoso ma ti sopporto perché per fortuna non ti ho sempre sotto gli occhi, e poi voglio far vedere di essere di vedute abbastanza ampie. E magari vuoi vedere che sotto sotto ce le ho anche le vedute ampie? Anzi ne sono sicuro, non vedi come ti lascio restare qui anche se mi fai schifo? E se faccio vedere di essere bravo è capace che vado anche in TV."

"Tolleranza", "tollerante", sono parole che non mi piacciono, perché comunque si portano sempre dietro quel retrogusto come di fastidio mal digerito e di sopportazione, più che di vera accettazione, anche quando vengono usate a fin di bene. Senza contare che, ad un certo punto, il fastidio può diventare più ampio delle vedute e della sopportazione, e allora buonanotte: iniziano i calci, i pugni e le bastonate. E in TV ci si finisce per altro.

Ne ho sentita una più bella: "convivenza." Neanche questa è perfetta al 100%, ma credo che da oggi userò questa, in mancanza di una parola migliore. Oh: se poi la trovo, vi avverto.