giovedì 16 giugno 2011

Syuzee l'egiziana



Ho letto, tempo fa e da qualche parte, che agli antichi egizi non piacevano le novità, loro preferivano che le cose, le usanze, tutto restasse immutato per secoli e secoli. A volte ho l'idea di essere così anch'io.

Come dice Luca Carboni, ognuno ha un mare dentro al cuore. Il mio corrisponde ad una mezzaluna di sabbia circondata dalla montagna, nella riviera di levante, un luogo di cui è giusto e pio tacere il nome. Un posto come (forse) tanti, con le tipiche case coi trompe l'oeil, il fiume che sfocia esattamente nel centro della spiaggia, la passeggiata lungomare e la focaccia con la cipolla più buona dell'universo, non bassa e molle ma alta e croccante. Una barca da pesca, - il Lavagnin - l'unica sopravvissauta ad una folla di barchette e gommoni milanesi, e Tommaso, il suo padrone burbero e di pochissime parole.

La mattina presto, quando il Lavagnin tornava da una notte di pesca, c'era odore di catrame, c'era l'odore buono della nafta bruciata dall'argano che tirava la barca in secca, e del pesce appena pescato e ancora vivo, che lentamente moriva nelle cassette di legno. Ricordo di aver fissato negli occhi a lungo una cicala di mare, che sembrava respirare sempre più a fatica, provandone dispiacere ma sapendo che in fondo era giusto così (ho scoperto in più tarda età che squilla mantis ha due finti occhi sulla coda, in realtà avevo contemplato con pietà il sedere).

Ho una foto di me a tre o quattro anni, stivaletti di gomma gialla (li ricordo così e non so perchè, la foto è in bianco e nero) e sguardo per terra, sullo sfondo Tommaso che ha la smorfia amara dei liguri, da tanti scambiata erroneamente per un sorriso, la faccia tagliata da rughe profonde che non sono vecchiaia, sono ferite che solo il vento del mare può lasciare.

Ogni tanto Tommaso elargiva generosamente una sardina (le sardine sono il pane del mare) ad uno dei gatti che, ad un segnale invisibile ma preciso, erano venuti a riva e si tenevano a rispettosa distanza. Però non dava mai pesce ai turisti, che erano di solito più numerosi dei gatti ma meno disciplinati - e per questo disprezzati; unica eccezione mia mamma, perchè Tommaso mi aveva preso in simpatia, forse perchè anch'io come lui non sorridevo mai e avevo sempre l'aria seria e imbronciata.

All'estremità ovest della spiaggia c'era, ai miei tempi, un bunker di calcestruzzo della difesa costiera. Un residuato dell'ultima guerra, che a causa di quella stessa guerra era stato dapprima messo lì a guardare il mare, poi ignorato e infine dimenticato. Probabilmente non ha mai sparato neppure un colpo.

Esattamente sopra e dietro il bunker c'era un muretto massiccio, almeno un metro e mezzo di spessore, che costeggiava e infine chiudeva la passeggiata; e quando certe sere il mare giù in basso era brutto, brutto come solo il mar ligure sa essere, un mare da mettere al sicuro in fretta le barche nei giardinetti, era uno spettacolo stare li a guardarlo, quel mare nero e furibondo che si rompeva le corna contro il cemento, un assalto certamente mortale se non fosse stato per quel forte e bravo bunker e il suo muro.

Ma anche il mare sa prendersi le sue rivincite. Il suo lento lavoro di erosione, onda dopo onda, aveva pian piano scavato i piedi del bunker, facendolo progressivamente inclinare in avanti e sprofondare, tanto che la larga feritoia da cui un tempo sporgevano i cannoni - già allora inutili nella loro mortifera ferrosità e da tempo ormai finiti nella fornace della Storia - la feritoia, dicevo, era ormai a livello del mare e il mare infatti vi entrava dentro.

Era un buco basso e minaccioso, che ai nostri occhi di bambini prometteva di essere la porta d'ingresso di qualche oscuro antro infernale, pieno di crostacei pallidi e alghe viscide, certamente una trappola pericolosa e inesorabile, e per questo ne stavamo alla larga.

Ma sopra, sopra il bunker era il regno del sole e della luce, fatto di asciugamani e canne di pescatori, e di blocchi di frangiflutti gettati alla rinfusa da qualche ignoto e onnipotente gigante; il mare aveva lavato e rilavato quei cubi di calcestruzzo così tante volte da aver messo a nudo i sassi aguzzi intrappolati nel cemento, che per il fatto di essere appunto aguzzi e oltretutto arroventati dal sole torturavano doppiamente i piedi teneri di noi che osavamo calpestarli senza sandaletti.

Quei frangiflutti erano una sorta di colonne d'ercole; una volta oltrepassati si offriva alla vista una scogliera esclusiva e proibita, nel senso che non era per tutti, sicuramente non per noi che infatti ci andavamo di nascosto dagli occhi di mamma "perché era pericoloso", e una piccolissima baia di sassi, su cui il mare ributtava principalmente alghe, legni e plastica.

Non era certo un paradiso terrestre, e nemmeno una di quelle calette segrete la cui esistenza la gente del posto ti rivela sottovoce quando gli chiedi "un posto speciale" (ammesso che i liguri possano rispondere seriamente ad una domanda del genere, specie se fatta da un milanese).

C'erano scogli di tutti i tipi, in pietra nera e porosa, verde e occhiellata, di ardesia grigia e di porfido violetto. Ce n'era uno, mi ricordo, particolarmente liscio e levigato, un vero sollievo per dei piedi che ancora dolevano a causa dei sassi di cui sopra.

Quello scoglio benedetto aveva una punta protesa sul mare, e una specie di conchetta liscia che sembrava fatta apposta per sedercisi, un sedile naturale da dove, gambe a penzoloni, potevi ammirare l'orizzonte lontano dalla calca della battigia.

Quel bunker, che oggi non c'è più, non compare mai in nessuna foto. Ho provato a cercare su internet, si trovano foto di quasi ogni epoca, ma il bunker non c'è mai. Quella che vedete sopra è forse l'unica che lo ritrae parzialmente, in basso a destra, nell'agosto del '58. Forse era considerato un po' come un vecchio zio reduce e rimbambito, nostalgico del ventennio, residuato di un'epoca che si vorrebbe poter dimenticare ma che lui, con la sua sola presenza, continua a riportare alla memoria. O forse è sempre stato visto dai locali come un intruso, un corpo estraneo nel solco centenario della storia del paesino, per la colpa di essere stato costruito dai tedeschi durante l'occupazione.

Nelle cartoline non ce n'è mai stata traccia; quelle prese dalla punta orientale della baia erano sempre volutamente troppo distanti per permettere di distinguerlo, e se si avvicinavano facevano in modo di "tagliarlo". Le foto dall'estremità occidentale invece erano invariabilmente prese dall'alto, dalla cima della montagna soprastante, troppo in alto per poterlo inquadrare. Inoltre erano più interessate a ritrarre il cazzo di scoglio con il crocifisso, uno sputo di roccia che, visto di sguincio, si confonde così bene con la parete rocciosa retrostante che se vuoi vederlo (o peggio, andarci) devi andare a cercartelo. In quarant'anni e passa non ci ho mai messo piede.

Come ho detto, oggi il bunker non c'è più. Mi hanno raccontato che il padrone lo aveva barattato con il permesso di restaurare una casa, l'ultima del paese, che gli stava proprio dietro (è quella bianca che si vede in primo piano). Il vecchio bunker è stato demolito, e al suo posto c'è adesso una scalinata che porta in spiaggia. Niente più bunker, niente frangiflutti assassini, anche lo scoglio liscio non c'è più, probabilmente è stato spostato, ribaltato, reso inutile. Se il mare si fa brutto è meglio che stai a casa, non c'è più neanche il bel parapetto largo, ma solo un murettino largo meno di un palmo.

Non c'è più bisogno di spaccarsi i piedi sul calcestruzzo vecchio e smangiato, oggi alla caletta ci puoi arrivare anche in carrozzella (c'è infatti anche lo scivolo di cemento), ammesso che tu ci voglia andare. Ma se ci vai, lo fai a tuo rischio e pericolo; un cartello ti avverte che c'è la possibilità di crolli, perché la montagna - rimasta senza i suoi scarponi di calcestruzzo - può franare giù da un momento all'altro.

Anche il vecchio pescatore non c'è più, e il suo nome è stato dato alla zona d'alaggio dove una volta il Lavagnin tirava il fiato tra una notte e l'altra. E' stato così che ho scoperto finalmente che anche Tommaso aveva un cognome, leggendolo su un cartello già corroso dalla salsedine. Non ho avuto il cuore di chiedere dove fosse finita la barca.

Quel luogo oggi non esiste più, e questa cosa la vivrò sempre come una profonda ingiustizia, da vera egiziana. Forse avrebbero dovuto lasciare che il bunker pian piano si sgretolasse e finisse finalmente nell'abbraccio del suo eterno, liquido nemico. Così invece hanno sottratto, impedito al mare di prendersi la sua vendetta. Forse.

Senza il parapetto di protezione le mareggiate cattive adesso fanno il bello e il cattivo tempo, e difatti la scalinata mostra già i primi segni di cedimento. Anche la casa, restaurata, è già piena di crepe e pericolante perché, non potendo più rodere le fondamenta del bunker, il mare sta intaccando le sue.

Il mare sa prendersi le sue rivincite.