sabato 7 gennaio 2017

Under the pale sun



Fuori c’erano un sole tiepido e pallido, che annunciava una primavera che non sarebbe arrivata mai, e i rumori della campagna. Dentro faceva caldo ma avevo il gelo nel cuore e nelle ossa, e il silenzio era intervallato dall’ansimare angoscioso del materasso antidecubito.

Lei era distesa nel letto, pesava una frazione di quello che era stato il suo peso normale, in compenso dimostrava vent’anni in più di quelli che effettivamente aveva. Si addormentava di frequente, stordita dagli oppiacei e dalla malattia; ed io ero lì accanto a lei, quel pomeriggio, cercando di ingoiare le lacrime e di comportarmi “normalmente” perché avevano deciso di non dirle niente. Una pia illusione, dato che lei aveva capito tutto e faceva la finta tonta, io credo per prenderci in giro ancora un'ultima volta.

Fino ad allora avevo sempre avuto paura di dire “ti voglio bene”. Perché nella mia famiglia mostrare un’emozione è sempre stato considerato come un segno di debolezza, e ogni sentimento che scappava fuori era come un topolino gettato in mezzo ad un branco di gatti; e proprio come quello, prima di essere finalmente ucciso e sbranato doveva essere sottoposto a giochi e tormenti crudeli. Ancora oggi, in occasioni e feste comandate, non riesco a baciare o abbracciare mio padre, a malapena ce la faccio con mia madre e i miei fratelli, e sempre sentendomi un po’ goffa e maldestra.

Anche quel pomeriggio il maledetto blocco mi prese; sapevo che sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto viva la mia amica più cara, eppure quelle parole - che pure sentivo mordermi a sangue la lingua - non riuscivano ad uscire. Ad un tratto lei si svegliò, sentendo la mia mano sopra la sua, ossuta, che stava sotto al lenzuolo. Mi guardò e mi disse: “guarda che lo so che mi vuoi bene.”

Da quel giorno non ho più avuto paura di dirlo, anche se un piccolo timore, un leggero frisson, ogni volta mi rimane. Mi si strozza la voce, ma il più delle volte ci riesco lo stesso. Dire “ti voglio bene” non significa necessariamente “vorrei portarti a letto”, “vorrei che fossi mia moglie”, vorrei passare ogni minuto della mia vita con te”, o desiderare che tu mi prenda come amica per la pelle.

Non vuoi bene ad una persona perché è stata male o ha visto l’inferno in terra (e magari nell’inferno ci abita ancora); non è un premio di consolazione o un cerotto, anche se molto spesso ne ha l’effetto (e per fortuna). So cosa non è, ma non chiedetemi di dirvi cosa è. Viene da dentro, lo senti e sai di avercelo; può accadere immediatamente, oppure costruirsi un giorno alla volta, pezzettino dopo pezzettino.

Spesso, troppo spesso lo tieni dentro, imprigionato, per paura di cosa potrebbe pensare chi sta dall’altra parte. E non dovrebbe essere così. Io non ho più questo timore, stavo per scrivere "per fortuna" ma la realtà è che sono stata vaccinata, e nella maniera peggiore.

Francamente, non mi importa se non siete d’accordo, se credete che io sia strana, o naif, o incauta in questo mio modo d’essere; se pensate o peggio, mi dite o mi fate capire, che dovrei evitare, smettere. Il problema l’avete voi, non io.

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