giovedì 12 aprile 2012

Not in MY name



TG1 di stasera, servizio sulle nostre forze speciali in Afghanistan. Le immagini sono di bassa qualità, molto pixelate, come se fossero state riprese con un telefonino, lo stile ricorda molto quello di "nella valle di Elah". Da un elicottero scendono al volo alcuni soldati, si dirigono correndo verso un edificio basso, fatto di fango secco. Non sembrano nemmeno italiani, tanto sono massicci & incazzati.

Voce fuori campo: "sono gli uomini delle forze speciali, italiani e afgani, in un'operazione congiunta antiterrorismo. Bisogna stanare un gruppo di talebani, viene lanciata un'offensiva, loro rispondono e nasce un conflitto a fuoco." Come per sottolineare quest'ultima frase i soldati si mettono a correre lungo i muri, con quella particolare andatura che si vede nei film, quasi accucciati, saltellando veloci, con la lunga e nera automatica protesa minacciosamente in avanti. Si sentono molto bene le raffiche di mitra.

Immagini concitate, ritmo molto serrato, avvincente; dall'alto un elicottero a due pale, un Chinhook, sorveglia tutto, un militare sospinge un "talebano", l'andatura è quella impacciata di chi è ammanettato. "Gli insorti vengono trasferiti in carcere per essere interrogati."

Nel dopo-partita la telecamera inquadra i militari in scene di repertorio, nel corso di un addestramento, durante un briefing, tutti con il volto rigorosamente coperto dal passamontagna nero. "La task force 45 è l'elite delle nostre forze speciali, ufficialmente non esiste. Sono soldati invisibili, che rischiano la vita ogni giorno." Segue intervista al comandante, si capisce subito che è uno che conta perché porta il passamontagna marrone anzichè nero - cinc ghej pusè ma russ - ha il tricolore cucito sul braccio sinistro e subito sotto un distintivo triangolare, nero, con una spada e forse delle ali, e delle saette.

"Quello che riesce a darti questo tipo di mestiere è qualcosa di impagabile," dice. La giornalista: "rischiate la vita per la patria?" "Certo," risponde, "rischiamo la vita per la bandiera che portiamo sul braccio."

Per la cronaca, l'Afghanistan è quel paese dove le persone tra le più povere del mondo vengono ammazzate con le armi più sofisticate e costose in circolazione: aerei invisibili, bombe intelligenti, robot assassini telecomandati.

Come tanti altri prima di me, io non ci sto. Not in my name, non fate queste porcate nel mio nome. Dice Noam Chomsky: quando lo stato si fa chiamare patria, si prepara ad uccidere qualcuno.

La foto è dell'ossario di Custoza; molti anni fa mio nonno mi ci portò a vederlo, quasi a tradimento. Lui dell'ultima guerra aveva visto parecchio, ma non mi ha mai raccontato niente; era un uomo di poche parole, e preferiva mostrarmi le cose coi fatti. Fu proprio allora, alla presenza di quei teschi ormai vuoti, muti gusci di persone che come me avevano vissuto, amato, sofferto finchè l'eroica morte del patriota non li aveva colti, che ho iniziato a capire.


Nota:
Cinc ghej pusè ma russ è un modo di dire in dialetto milanese, che grossomodo significa: spendiamo un po' di più ma facciamoci dare qualcosa di meglio. Attenzione: se non sei milanese o per lo meno lombardo qualsiasi tentativo di pronuncia può produrre un risultato comico.

sabato 7 aprile 2012

Il racconto di pasqua di Syuzee


In origine questo doveva essere il racconto di natale di Syuzee. Però non ce l'ho fatta a finirlo in tempo per il natale, e allora l'ho lasciato nel limbo, accantonato in attesa di una migliore occasione, come ad esempio questa.

Doveva essere il 1974 o il 75. Mia mamma mi lesse una cosa he aveva trovato sul Corriere, non era un articolo ma probabilmente una lettera, un appello. Sebbene avessi allora pochi anni ricordo ancora abbastanza bene di cosa si trattava: una madre raccontava la sua situazione di estrema povertà, la sua casa, fredda e spesso allagata, la fatica di riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, le carezze e rassicurazioni ai figli, la sera, per farli addormentare. Le bugie raccontate per farli credere in un futuro migliore. Dettagli commoventi di una miseria allora più comune di adesso, che a quei tempi ancora ci apparteneva e che oggi abbiamo voluto dimenticare.

Ricordo che mia mamma mi chiese immediatamente: "li aiutiamo?" con gli occhi che le brillavano. Credo di aver risposto di sì, ma comunque la sua era una domanda retorica, non aveva certo bisogno del mio permesso per farlo. Mi immagino, più che ricordarlo, il suo tono speranzoso e ottimista, già soddisfatto dalla buona azione ventura; ricordo la fila all'ufficio postale che era proprio davanti casa in un pomeriggio di sole, e il vaglia che mandammo a questa famiglia bisognosa, qualche decina di migliaia di lire da cui potevamo separarci in maniera più o meno indolore.

Diciamo che della mia vita fino agli otto anni non ho moltissimi ricordi, ma questa qui è una cosa che mi è sempre rimasta dentro. Credo che da allora, da quell'esempio di altruismo materno, se vogliamo un po' naif (poi ripetuto sotto forme diverse, più o meno quotidianamente), derivi quel tallone d'achille che ho nei confronti di chi mi chiede aiuto.

L'ultima volta è stata la scorsa estate. Località di villeggiatura al mare, passeggiata serale per le vie del centro (shopping proibito e proibitivo), un tale in camicia e maglioncino buttato sulle spalle mi allunga una cartolina e mi chiede un contributo.

Mi spiega in due parole che raccoglie fondi per pagare delle ore di lezione a dei bambini ciechi; so per esperienza che la frase "faccio già beneficienza da casa" non attacca, non tanto con lui quanto con me, che da casa riesco ormai a farne ben poca (leggi: niente, in tempi di magra sono cazzi per tutti) per cui non provo nemmeno a pronunciarla.

Allungo la mano al portafogli, con la segreta, meschina speranza di trovare cinque euro e cavarmela con poco; col cavolo, dentro c'è solo una banconota, ed è un pezzo grosso (non vi dico quanto per pudore, ma se avete già letto un mio altro post lo potete facilmente indovinare). La spesa di una settimana; un pieno di gasolio; mezza otturazione dal dentista.

So già che sta per lasciarmi, e anche il bliglietto lo sente; ci scambiamo un'ultima, veloce occhiata d'addio e poi ecco che già cambia di mano. Un mio amico, presente alla scena, mi guarda con aria di schifo e riprovazione, come a dire "che imbecille" (io).

Mi rigiro la cartolina tra le mani, cerco disperatamente un appiglio che mi confermi di aver fatto la cosa giusta: macché, è un cartonaccio con tre o quattro vignette orrende, lo conservo ancora. Ogni tanto mi viene la tentazione di guardare su internet (l'occhio nel cielo a cui nulla sfugge) per trovare la conferma di essere stata presa per il sedere, ma poi mi faccio forza e resisto. Non lo voglio sapere.

Sono quasi convinta che, molto probabilmente, anche l'appello della madre bisognosa era un trucco per acchiappare qualche gonzo e spillargli quattrini. Negli anni ho capito che non posso farci niente, è più forte di me, e a volte ha dei risvolti quasi comici. Prego la regia mostrare il secondo contributo.

Siamo a metà degli anni novanta. Il posto è una stazione delle FF.SS., la mattina presto. Il soggetto passeggia avantie indietro lungo la pensilina, sta aspettando il treno. In tasca solo l'abbonamento e pochi spiccioli per fare colazione una volta a destinazione. Si avvicina un tale di mezza età tra il malmesso e il trasandato, probabilmente un clochard come ne girano tanti nelle stazioni. In maniera dimessa chiede al soggetto di dargli qualcosa per fare una telefonata urgente; questo, senza pensarci troppo, gli allunga il contenuto della tasca. Il clochard mi ringrazia e se ne va.

Il protagonista si volta e ricomincia a passeggiare, lo stomaco brontola perché è vuoto ma il cuore è leggero. Fino a quando non incrocia la vetrina del bar della stazione e non vede attraverso il vetro il suo beneficiato davanti al bancone, mentre mangia brioche e cappuccino. La sua colazione, i suoi fottuti brioche e cappuccino.

Ripensandoci oggi, se mi avesse detto che aveva fame gliele avrei date lo stesso quelle poche lire; lui deve aver pensato il contrario, da cui la necessità di raccontare la storiella della telefonata. Però ci rimasi parecchio male, e mi arrabbiai più con me stessa e la mia ingenuità che non con il clochard e la sua bugia. Come mi arrabbio tutte le volte che ci ricasco, anche se so che, tanto, è più forte di me.