domenica 31 ottobre 2021

Ti chiedo scusa



E’ successo alcuni anni fa. Un po' tanti anni fa.

Ti ho incrociata in un grande centro commerciale, al banco degli affettati. Tu avevi un numeretto più basso del mio, e una fortissima somiglianza con Mariangela Melato; capello biondo corto, altezza invidiabile, voce leggermente roca e dall’accento molto lumbard, proprio come in Travolti da un insolito destino

E spalle larghe, forse un po’ troppo, che tradivano il tuo essere transessuale. La salumaia, una ragazzotta stupida, ovviamente mangiò la foglia e ti servì con palese ironia e disprezzo. La cosa ti ferì in maniera evidente, e fece restare male pure me. Dopo che te ne andasti, la salumaia ebbe per te parole molto volgari, davanti alle sue colleghe e agli altri clienti sghignazzanti. E io, parafrasando Vecchioni, gli avrei preso la testa e le avrei fatto mangiare il banco. E invece no, la cattiveria umana, gratuita, allora come oggi ha il potere di congelarmi in uno stupore paralizzante. 

Ti ho incrociata poco dopo, per caso, nella corsia del cibo per cani; parlavi tra te e te a voce un po’ più alta del normale per cercare di darti un tono e sentirti meno a disagio. Provai una pena immensa ma, ancora, non riuscii a profferire parola. In fondo in fondo temevo di farti sentire ancora più a disagio.

Se potessi tornare indietro, con la testa che ho oggi, ti fermerei con una parola gentile e magari ti offrirei un caffè, assicurandoti che non hai motivo nel sentirti a disagio, che ci vuole un coraggio da leoni per poter andare in giro come fai, a testa alta, esattamente così come ti senti; in faccia a perbenisti, ottusi e ignoranti.

La salumaia è rimasta ancora salumaia, la rivedo ancora ogni tanto. Niente da dire contro il mestiere eh, semmai contro la persona: una grandissima stronza che non ha mai saputo, in vita sua, cosa volesse dire imboccare una strada terribile come la tua, subire il disprezzo della famiglia, forse le botte di un padre o di un fratello, il rifiuto degli amici, magari anche il marciapiede.

Ma andare avanti comunque, per essere fedele a te stessa, nonostante tutto e tutti. Mi pento di non avertelo detto, e per questo ti chiedo scusa.

lunedì 2 settembre 2019



Sign of the times



Nel 1987 Prince pubblica un doppio album (in nero e pesca, i suoi colori preferiti) che fa epoca, "Sign ☮ the Times". Il singolo d’esordio, che ha lo stesso titolo dell’LP, inizia con queste parole:

In France a skinny man died of a big disease with a little name / by chance his girlfriend came across a needle and soon she did the same.”

Tradotto in italiano, suona all’incirca così:
“In Francia un tizio magro è morto di un piccolo nome per un grande male / per caso la sua ragazza si è punta con un ago e presto ha fatto l'uguale.”

L’AIDS, segno di quei tempi (gli anni ’80); molti artisti e uomini di spettacolo ebbero a che farci, si ammalarono, ne morirono; tanti decisero di schierarsi, di combatterlo diffondendo il verbo della prevenzione con canzoni, opere d’arte, dichiarazioni, campagne pubblicitarie.

Segno dei tempi, 2019. F., una giovane donna di nemmeno quarant’anni, muore ad inizio agosto di un tumore estremamente aggressivo, che in tre mesi se la porta via. Causa scatenante, l’HPV o papilloma virus. Esistono oltre 130 tipi di HPV, ma due di essi – il tipo 16 e il tipo 18 – sono responsabili oltre il 70% di tutti i casi di tumore del collo dell’utero.

In Italia, questo tumore colpisce 3.500 donne all’anno, e ne uccide 1.000. Una di loro è F., nemmeno quarant’anni, ancora tanta vita da vivere davanti a sé. Al funerale sua madre, distrutta dal dolore, abbracciandomi ha singhiozzato: “vaccinate le vostre bambine, vaccinate le vostre bambine.”

Il vaccino contro i tipi 16 e 18 esiste da circa 13 anni; va fatto prima che il “soggetto” possa essere esposto al virus, cioè prima che inizi l’attività sessuale. Purtroppo quando F. era giovane e in età da vaccino, il vaccino ancora non esisteva.

Ma oggi c’è. C’è, ed è efficace nel contrastare ben nove tipi di HPV, tra cui il 6 e l’11, responsabili di oltre il 90% dei condilomi ano-genitali.

Flashback numero 1, lo scorso giugno. Al supermarket incontro la mamma di A., 11 anni, compagno di classe di mia figlia. “Come stai?” le domando. “Bene,” mi risponde, “anche se oggi abbiamo vissuto un’avventura…” “Cos’è sucesso?” “Ho portato A. a vaccinare contro il papilloma virus, e dopo aver fatto l’iniezione è svenuto…” “Ma anche i maschi si vaccinano contro il papilloma?” “Certo, così quando saranno adulti non infetteranno le loro compagne.” Una lungimiranza, un'intelligenza e un altruismo rari. Chapeau.

Flashback numero 2, lo scoro anno. Un collega d’ufficio, noto per le sue posizioni apertamente antivacciniste: “Beh, alle mie figlie ho fatto fare le vaccinazioni principali, mica tutte perché sono troppe. Fanno male.” “Scusa, quali sono le vaccinazioni che non hanno fatto?” “Beh,” e ti guarda con l’aria sorniona di chi crede di saperla lunga, più lunga di te, “ad esempio quelle per il papilloma, che non servono.”

Flashback numero 3, due anni fa. Agente immobiliare, donna e madre, nota per le sue posizioni violentemente antivacciniste: “Ma lei lo sa quanto ci guadagna la Glaxo con i vaccini??” mi aggredisce. “Ci hanno costruito persino un nuovo stabilimento!”
Segno dei tempi, 2019. Mai come ora le colpe dei padri ricadranno sui figli. Prince è morto, gli antivaccinisti vivono, le loro figlie si vedrà. Mille ogni anno.

venerdì 7 giugno 2019

Roald e Olivia Dahl


L'immagine può contenere: 1 persona, con sorriso, persona seduta, scarpe e bambino

“Olivia, la mia figlia maggiore, si prese il morbillo quando aveva sette anni. Ricordo che, mentre la malattia faceva il suo normale corso, spesso leggevo per lei accanto al letto e non provavo alcuna particolare preoccupazione. Un mattino, quando lei era decisamente in via di guarigione, mi sedetti sul suo letto e le mostrai come creare degli animaletti usando dei nettapipe colorati; quando fu il suo turno di realizzarne uno mi accorsi che le sue dita e il suo cervello non cooperavano e che lei non riusciva a fare niente.

"Ti senti bene?" le domandai.

"Mi sento un po' assonnata," disse lei.

Perse conoscenza nel giro di un'ora. Dopo dodici ore morì.

Il morbillo si era trasformato in una cosa terribile chiamata encefalite morbillosa, e non c'era nulla che i dottori potessero fare per salvarla. Era il 1962, ventiquattro anni fa; ma anche oggi, se un bambino col morbillo sviluppa la stessa reazione mortale avuta da Olivia, continua a non esserci niente che i medici possano fare per salvarlo. Tuttavia i genitori di oggi possono fare qualcosa per impedire che questa tragedia accada a qualcuno dei propri figli. Possono farli vaccinare contro il morbillo. Io non potei farlo con Olivia nel 1962 perché a quei tempi non era ancora stato scoperto un vaccino affidabile.

(…)

Ho dedicato a Olivia due dei miei libri. Il primo è stato "James e la pesca gigante". A quel tempo lei era ancora viva. Il secondo è stato "Il GGG", e lo dedicai alla sua memoria dopo che lei morì di morbillo. Potete leggere il suo nome all'inizio di questi due libri. So quanto lei sarebbe felice se potesse sapere che la sua morte ha contribuito risparmiato agli altri bambini un bel po' di sofferenze e di morte.”

Roald Dahl, 1986

lunedì 9 aprile 2018

Cari analfabeti funzionali...

Non ho un grandissimo rapporto con la penna o la tastiera. Forse dal blog non sembra, oppure sì. Soppeso ogni riga, quasi ogni parola, limo, ritaglio, correggo. E poi ci ritorno sopra ancora e ancora. Forse è questo che mi sta togliendo il piacere di scrivere. Ma stasera voglio provare a fare un esperimento, a scrivere di getto, senza rileggere (OK tanto so che questo non ci riesco a farlo, ma prometto che rileggerò pochissimo), proprio come un vero analfabeta funzionale. Voi che leggete, per favore provate a passarci sopra e a concentrarvi più sul contenuto che sul contenitore, a badare più alla sostanza che alla forma.

Cari analfabeti funzionali...

Gustav Schroeder

Pare che uno degli argomenti del giorno da voi preferiti sia quello dell’immigrazione. Un po’ per via della costante emergenza che l’immigrazione rappresenta per il nostro Paese, un po’ per come la questione è stata recentemente cavalcata, in campagna elettorale, da un po’ tutte le forze politiche – e in maniera abbastanza indegna di un paese civile.

Dai vari interventi ho ricavato la seguente impressione: la tendenza italiana del momento è che gli immigrati siano persone – anzi no, non persone, ma praticamente delle bestie – responsabili di quasi tutti i mali della nostra Patria adorata, e che alla minima contrarietà andrebbero rimessi sui gommoni (magari bucati, come ho visto scrivere a qualcuno) a calci nei denti, e rispediti al loro paese. Ah, tutto questo ovviamente per mostrare loro come funzionano le radici cristiane dell’Italia e dell’Europa. Ma se Gesucristo tornasse oggi, vi sputerebbe in faccia. Forse è per questo che in tanti desiderate che sia LVI a ritornare.

Ad ogni modo, chi la pensa diversamente da quanto sopra è un buonista del cazzo, una zecca (piddina o comunista, è uguale) e dovrebbe prendersi, oltre ad un po' di legnate, anche qualche immigrato a casa propria, così capisce veramente eccetera eccetera. Senza appello.

Facciamo un esperimento (attenzione, è richiesta una minima conoscenza della lingua inglese). Andate su google e digitate due parole: “gas attack”. Guardate qualche filmato delle prime due o tre pagine dei risultati. Sono video di attacchi effettuati con gas nervini sulla popolazione civile siriana. Non si sa bene chi sia stato, forse Assad, forse qualcun altro, ma si parla di una settantina, un centinaio di morti.

Guardate donne e bambini stesi a terra, ammucchiati alla rinfusa dentro i rifugi, le bocche e gli occhi incrostati del muco che li ha soffocati. Guardate quella donna caduta a terra con il figlio in braccio, mentre un altro figlio sui cinque o sei anni, la zazzeretta nera di capelli, è riuscito a fare ancora un paio di passi a piedi scalzi prima di cadere faccia a terra sul cemento polveroso per poi non rialzarsi più.

Una posa che mi ha ricordato, orribilmente, quella di Aylan, il bambino siriano morto affogato su una spiaggia della Turchia nel 2015. Due volti della stessa tragedia. Provate a pensare, voi, proprio voi che state leggendo, di passare una notte sotto i bombardamenti, con la paura di morire bruciati, schiacciati, o soffocati dal gas in un qualunque momento. Voi o i vostri figli, se ne avete. Voi che basta un mal di denti, una febbriciattola per farvi passare una nottataccia d’inferno, e la mattina dopo andare in giro come zombie. Provatelo una volta sul serio l’inferno, quello vero. Vivete almeno una volta la stessa paura che i vostri nonni molto probabilmente hanno provato durante l’ultima guerra.

Già, perché poco più di settant’anni fa queste cose succedevano proprio qui da noi, nella civilissima (?) Italia. Purtroppo sembra che all’Italia e, assieme a lei, a tanti paesi d’Europa e del mondo, la memoria storica stia cominciando a fare cilecca; c’è aria di nostalgia di certi loschi figuri che sono stati responsabili e/o complici di milioni di assassinii. Sembra proprio che una lezione, imparata a caro prezzo – versando il sangue di milioni di persone – sia stata già dimenticata, o forse mai imparata.

Questo, per lo meno, se devo dar credito ad una notizia di pochi giorni fa: l’Italia, come dicono certi studi, è la patria degli analfabeti funzionali, dei beoti facilmente impressionabili e manipolabili, di quelli che blaterano senza pensare sull'onda di un'indignazione tanto intensa  e feroce quanto mal riposta e momentanea.

Io spero invece che in realtà si tratti di altro: di un fenomeno ben conosciuto per cui un imbecille che strilla si sente di più di cento saggi che stanno in silenzio. Però adesso occorre che quei cento saggi la piantino di stare zitti e comincino a farsi sentire, perché altrimenti qui va tutto a puttane.

Scusate, ho divagato un attimo. Torniamo al nostro esperimento. Allora, abbiamo visto queste immagini; molto graphic, molto crude, che fanno sanguinare gli occhi e fremere la coscienza, se ancora ne avete una. Persino Trump si è indignato, ed è tutto dire. Adesso provate a rispondere: di fronte a gente che scappa da un orrore del genere, di fronte a un padre o una madre che cerca di portar via i propri figli da una guerra così, dove puoi morire a cinque anni vomitando i polmoni fuori dal corpo, ce l'avete il coraggio di scendere in strada a metter su barricate, a sbarrargli il passo come hanno fatto in vari paesi qui da noi, di urlargli contro “fuori dal mio paese!” agitando bastoni davanti alle loro facce, per paura di dover condividere le vostre cazzo di quattro carabattole di merda?

Facciamo un altro esperimento, stavolta ve lo faccio facile, niente inglese. Provate a leggere la storia della nave St. Louis. Un racconto molto scorrevole e interessante lo ha scritto Julian Barnes in Una storia del mondo in 10 capitoli e 1/2. Ma se siete analfabeti funzionali, difficilmente nel corso degli ultimi dodici mesi avete letto qualcosa (se non, forse la Gazzetta) e non avete la minima voglia di mettervi a farlo proprio ora. Vi aiuto io, ma in maniera molto sintetica.

Il transatlantico St. Louis era una nave della compagnia tedesca Hamburg-America. Nel 1939 imbarcò 930 rifugiati ebrei che scappavano dalla Germania, e compì quello che oggi viene ricordato come il Viaggio dei Maledetti. Il comandante della nave era una brava persona – per questo voglio ricordarne il nome, Gustav Schröder – e cercò di trattare i suoi passeggeri in maniera umana e dignitosa, nonostante le mille difficoltà che avrebbe incontrato e il fatto che milioni di suoi compatrioti la pensassero in maniera molto diversa dalla sua, e volessero appenderli per il collo.

Gustav Schröder lo potete vedere in foto, su in cima alla pagina; lo so, sembra difficile credere che fosse un antinazista, forse per via dei baffetti alla Adolf, ma lo era, era un essere umano nel vero senso della parola, e oggi è anche un giusto delle nazioni.

La St. Louis era inizialmente diretta a Cuba, dove sembrava che gli ebrei in fuga potessero essere accolti, ma non fu così; il paese sbarrò le frontiere (grazie ad un cavillo i fuggitivi vennero designati come turisti, e quindi respinti) e la nave rimase all’ancora sotto il sole dei tropici per giorni e giorni, inutilmente; alla fine solo in 29 riuscirono a sbarcare.

Il piroscafo si diresse allora verso un’altra nazione civilissima, gli Stati Uniti d’America, land of the free, ma anche lì fu rimbalzata; caso strano, si scoprì che l'America era razzista e xenofoba. Anche il Canada si oppose ad accogliere gli ebrei fuggitivi, e lo stesso fecero, a ruota, Repubblica Dominicana, Venezuela, Ecuador, Cile, Colombia, Paraguay, Argentina. Nessuno volle accogliere quel carico umano in fuga.

Venne invertita la rotta in direzione dell’Inghilterra; l'idea era quella di appiccare il fuoco alla nave in vista delle coste inglesi per costringere i Britons a salvare i passeggeri ed accoglierli, ma America e Inghilterra si misero d’accordo diversamente. La St. Louis fu fatta arrivare ad Anversa, nel Belgio, a poche centinaia di chilometri di distanza da dove la nave era originariamente partita pochi mesi prima, ma dopo un viaggio di oltre diciottomila chilometri attraverso un oceano di indifferenza ed ipocrisia.

I suoi passeggeri furono sbarcati e smistati: poco meno di trecento finirono in Gran Bretagna, gli altri furono divisi tra Belgio, Francia e Olanda dove, almeno per un po’, si credette che fossero al sicuro. Ma con l’invasione, nel 1940, di questi tre paesi da parte della Germania, e con i rastrellamenti, le deportazioni, i campi di concentramento e sterminio che seguirono, nessuno può dire oggi con certezza quale fu il destino dei maledetti. Volete provare ad immaginare?

Ora, domanda da un milione di dollari (e fine dell’esperimento): se praticamente tutto il mondo civile del 1939 respinse degli ebrei che stavano fuggendo dalla minaccia concreta dei pogrom e dello sterminio, volete forse voi oggi, nel 2018, accogliere gente che scappa da una semplice guerra?

Che poi io lo so, voi siete quelli che a guardare Schindler's List vi è scesa pure la lacrimuccia, e se ve lo facessi rivedere in questo esatto momento sareste pure pronti ad accogliere a braccia aperte gli ebrei della St. Louis (vabbé, magari non tutti e 930), perché voi italiani in fondo siete brava gente. Voi italiani del 2018, perché quelli del 1939 mica tanto, anzi forse (anche) loro avrebbero ricacciato in mare quei rifugiati.

E comunque no, voi italiani del 2018 non siete brava gente, state facendo vedere di essere fatti esattamente della stessa pasta di quelli che facevano arrivare i treni in orario, e che “però hanno fatto anche delle cose buone”. Io potrò anche essere una buonista del cazzo, ma voi siete complici di assassini, quelli di allora e quelli di oggi.

martedì 5 settembre 2017

La Post-Verità



La post-verità sembra essere diventata uno degli argomenti del giorno. Per comodità, riporto la definizione che ne da la wikipedia:

"Il termine post-verità, derivante dall'inglese post-truth, indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza.

Nella post verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi effettiva sulla veridicità o meno dei fatti reali. In una discussione caratterizzata da "post-verità", i fatti oggettivi, chiaramente accertati, sono meno influenti nel formare l'opinione pubblica rispetto ad appelli a emozioni e convinzioni personali."

Esistono diverse post-verità, gli esempi ci vengono messi davanti agli occhi quotidianamente (anche da parte di chi, come i giornalisti, dovrebbe invece verificare), poi sta a noi decidere se credere ciecamente oppure usare un po' di senso critico e di intelligenza.

Ma la post-verità è un'invenzione recente? Mi sa tanto di no. E' vero, i social oggigiorno ne amplificano l'effetto a dismisura, ingrandendo il bacino di babbei disposti ad abboccare istantaneamente alle bufale; ma dobbiamo tenere presente le distanze e le difficoltà di comunicazione che esistevano in passato.

Quando le notizie viaggiavano sulle navi a vela, a dorso di cavallo o (con buona pace di certi politicastri nostrani) di cammello, era difficile dimostrare la falsità di certi argomenti, persino di certi documenti. Ed era di fatto impossibile diffondere una smentita capillare, e in tempo utile. Col risultato che certe credenze (l'equivalente delle nostre leggende metropolitane, o anche vere e proprie notizie inventate ad arte) si radicavano profondamente nel tessuto della società, ed era poi quasi impossibile demolirle.

Mi vengono in mente la Donazione di Costantino e il Protocollo dei Savi di Sion; più che delle post-verità questi sono dei falsi a tutti gli effetti, eppure c'è gente che ci crede ancora oggi. Ancora oggi ci sono persone - e tante - che, spinte dal sentimento razzista e antisemita, sono disposte tranquillamente a dire che, anche se non è vero, è talmente verosimile da essere comunque veritiero. E senza tirare in ballo il piano Kalergi, i rettiliani e i terrapiattisti.

In tempi più recenti ho dovuto sostenere - in maniera abbastanza ridicola, lo devo ammettere - il fatto che quello che si mangia il Pinocchio del libro di Collodi è un pescecane e non una balena, come tutti invece sembrano ricordare (complice forse un certo inquinamento biblico); inutilmente. Pinocchio è stato inghiottito da una balena, punto e basta; era anche disegnato nel mio libro delle elementari.

Di recente ho dedicato alla mia special one uno scritto, lo potete leggere qui di seguito:

"Non si può amare solo con la voglia di amare.
Con il voler amare.
Con il voler restare.
Con il crederci.
Con io lo amo.
Perché poi non basta.
Non regge.
L’amore non basta per amare.
Bisogna che ci sia la storia, per amare.
La vita, per amare.
Non bastano le parole, per amare.
Neanche quelle giuste, bastano.
Neanche le parole d’amore bastano per amare.
Dobbiamo fare una passeggiata.
Dobbiamo cenare insieme.
Leggere un giornale.
Andare a fare la spesa.
Fare una cosa insieme.
Che sia nostra.
Che siamo noi.
Io e te.
Non basta fare sesso per fare l’amore.
Anzi.
Ci vogliono i baci.
Ci vuole anche solo stare con la fronte appoggiata alla fronte.
Per amare ci vuole una storia. Da vivere. Vissuta.
Ci vuole tempo.
Non puoi non esserci mai.
Per amare ci vuole una storia. Da fare e raccontarsi.
Non puoi non aver voglia di parlare.
Non puoi parlare sempre.
Una storia da fare insieme.
Non puoi trovare tutto pronto.
Arrivare quando tutto è fatto.
Io amo solo chi fa la giornata con me.
Chi fa la vita con me.
Chi fa la spesa con me.
Chi fa una passeggiata con me.
Chi fa tempo con me.
Chi fa storia con me.
Non amo se no.
Amo solo chi sa stare tutto con me.
Chi parla con me.
Chi torna da me.
Chi chiama per non dire niente.
Chi mi bacia la testa, tra i capelli, passandomi vicino.
Chi mi porta i capelli indietro.
Io non le voglio le romanticherie.
Voglio le cose che sono nella mia giornata.
Voglio che sono con te.
Fatte con te.
Raccontate a te.
E poi ti racconto le cose solo mie.
Che faccio io.
Entro e esco dalla tua vita.
E tu dalla mia.
Come l’ago che cuce .
Come l’ago che per unire, entra e esce."

Merita spendere due righe a riguardo. Ho letto questa poesia per la prima volta sulla bacheca di un'amica, attribuita nientemeno che a Frida Kahlo. Però, andando a cercar bene (sempre verificare le fonti!) ho scoperto che in realtà è di un bravo scrittore italiano, Mauro Leonardi, presa dal suo libro Il Diario di Paci.

E' successo che una pagina facebook dedicata alla poetessa messicana, che ha ancora parecchio seguito tra i romanticoni, l'ha pubblicata senza citarne l'autore. La poesia è stata poi condivisa a raffica presumendo che l'autrice fosse lei e ciao, ecco fatto il patatrac. OK, forse nemmeno questa è una post-verità, ma sto aspettando di leggere qualcuno che dica: E allora? Per me avrebbe potuto benissimo scriverla lei.

lunedì 10 aprile 2017

Like a rolling stone




I sassi parlano. So che starete pensando "non ci fate caso, è pazza", ma è vero, ve lo giuro, parlano; però lo fanno a modo loro.

Quando state al mare provate, come faccio io a volte, a camminare sulla riva facendo vagolare lo sguardo qua e là sui sassi accarezzati dalla battigia. Raccoglietene uno, non importa quale; non importa la grandezza, la forma, il colore, ognuno ha una storia da raccontare. Fatevi ispirare.

Diciamo che avete raccolto un piccolo sassetto tondeggiante, striato, come quello che ho preso io un giorno, lo vedete in fotografia.

Proviamo a immaginare. Le sue linee chiare e sottili potrebbero raccontare il depositarsi lungo il tempo, moltissimo tempo, di bianche sabbie coralline, che non sono altro che gusci sbriciolati di piccoli animaletti vissuti milioni di anni fa; bestioline che per secoli e secoli hanno mangiato, respirato, amato ed estratto calcio e silicio dall’acqua marina per costruirsi una casa nella quale fare le suddette cose.

Le striature brune o rossicce narrano di rocce e argille consumate dalla pioggia dei secoli su pianure lontane – in un tempo in cui la cosa più simile ad un essere umano era grande grossomodo come un gatto e saltellava ancora da un ramo all’altro – e trascinate al mare da fiumi millenari che oggi non esistono più e che si sono sempre guardati dal possedere un nome.

Quelle più scure, che a tratti mandano impercettibili bagliori metallici, sono forse il prodotto di titaniche eruzioni di vulcani sottomarini alti chilometri, ancora oggi mai visti da occhio umano; ma se osiamo forzare la mano al caso e alla fantasia, possono diventare persino i resti polverosi di quell'asteroide che 66 milioni di anni fa con una carambola cosmica spazzò via tutti i dinosauri.

Il mare, con le sue grandi braccia, per migliaia d’anni ha poi compresso tutti questi strati, impastandoli, spezzetandoli in tanti frammenti; li ha cullati, sfregandoli gli uni contro gli altri e addosso a qualsiasi altra cosa sotto mano, asportando millimetro dopo millimetro tutte le asperità e trasformandone uno in quel piccolo gioiello levigato e arrotondato che tieni in mano.

Tutto questo in un solo, piccolo sasso di pochi centimetri cubi che esisteva molto prima di te e probabilmente continuerà a farlo anche dopo. Lo tieni in mano solo pochi secondi nei quali il senso di mistero che conserva forse ti sussurrerà qualcosa di indistinto, ma poi incurante lo restituirai alla sua vita.

Se un sasso così piccolo è capace di dire così tanto a chi lo sa ascoltare, prova a pensare quello che può raccontare un essere infinitamente più complesso e incantevole come una persona, se solo tu la sapessi avvicinare ed osservare con occhio sincero e disincantato. E invece anche di persone incantevoli se ne buttano via tante.

Dedicata.

venerdì 17 marzo 2017

Terziario arretrato


Stamattina nell'ufficio di un collega ho visto una cosa, un oggetto che credo si chiami "manifesto motivazionale" o qualcosa del genere. Fa parte di una serie di poster 70x100 scritti in grande e con anche i disegnini, che contengono princìpi guida e massime relative ai vari settori dell'attività aziendale.

Ve lo devo dire, è una specie di americanata. Vonnegut li prendeva in giro già negli anni settanta, ma la mia ditta li distribuisce ancora oggi a chi ha partecipato a dei corsi di formazione, e qualcuno dei dipendenti più giovani e sprovveduti ha anche il coraggio di appenderli in ufficio.

Nella maggior parte dei casi invece il destino di questi supporti cartacei - per produrre i quali sono state sterminate intere foreste - è quello di rimanere in eterno oblio sopra qualche armadio o cassettiera, a raccogliere la polvere dei secoli; nessuno infatti ha il coraggio di buttar via un'emanazione tipografica del diabolico ufficio personale. Non si sa mai.

Secondo qualche direttiva interna segreta di quello stesso ufficio, la sottoscritta - per sua fortuna, bisognerebbe aggiungere - deve aver probabilmente superato l'età massima per essere ammessa ad uno qualsiasi di questi corsi, ed è quindi diventata parte di quella in-formabile combriccola attualmente situata proprio ai margini della gerontoburocrazia. Io la considero una sorta di elite intellettuale dissidente, refrattaria ai biechi e falsamente entusiastici dettami aziendali. Si mormora che qualcuno di noi, oltre all'ironia, forse abbia anche una coscienza ben nascosta da qualche parte.

Il poster specifico che stavo leggendo stamattina, attraverso le regolamentari due dita di polvere, riguardava la contrattazione, la nobile arte alla base di qualsiasi impresa commerciale. Una delle massime riportate recitava, più o meno testualmente: mai dare qualcosa senza una contropartita. Se cediamo qualcosa gratis, la controparte potrebbe essere indotta a credere che sia di poco valore, e la nostra credibilità ne soffrirebbe. Occorre invece dare il giusto valore ad ogni cosa, e pretendere che sia corrisposto.

Ora, in linea generale posso ammettere che un briciolo di verità ci sia, in fondo in fondo, in queste parole, se le applichiamo ad un ambito aziendale/commerciale. Ma per un istante ho provato a commettere l'errore che fanno in tanti, e cioè applicare regole di lavoro alla vita vera, e m'è venuto il vomito.

Perché, effettivamente, alcune persone del genere le ho incontrate; gente che non fa mai niente per niente, che guarda sempre e comunque al proprio tornaconto, che considera le altre persone come delle pure e semplici opportunità. Orribile, secondo il mio modo di vedere. Orribile, ma molto diffuso.

Sarà magari un po' holliwoodiano, da sempliciotti, lo ammetto, ma mi sento di difendere la gratuità di certi gesti e certi modi d'essere. La bellezza di fare qualcosa per una persona che ti sta a cuore, senza aspettarsi nulla in cambio (ma sul serio, non come certe carità pelose che ho visto fare); la sorpresa di quando scopri indirettamente la profondità dell'affetto che ti portano le tue amicizie.

Tutte cose che nel marketing non valgono una cicca, sappiatelo.