mercoledì 16 febbraio 2011

Impression: soleil levant


E’ l’alba. Esco dal cancelletto di casa e volto a destra lungo il marciapiede. La macchina è parcheggiata lì vicino, la fiancata argentea è illuminata dai primi raggi di un sole pallido ma che promette bene. Mi avvicino, con le chiavi in mano, e all’improvviso ho un’impressione. Che cerco di scacciare, subito. Ma rimane. Mi avvicino alla portiera posteriore, passo prima il polpastrello, poi l’unghia, e l’impressione diventa certezza. E’ un’ammaccatura.

E’ proprio un’ammaccatura. Ieri non c’era. Ne sono certa, scientificamente, matematicamente certa: ieri ho ritirato la macchina dal carrozziere, la fiancata era nuova di pacca, mi è costata cinquecento euri del mio sangue, un euro al giorno messo da parte per cinquecento giorni. E adesso è ammaccata. E non sono passate neanche ventiquattr’ore. Un bel record, non c’è che dire. Cazzo. No, non proprio “cazzo”. Sono veneta per un quarto, la bestemmia fa parte del mio patrimonio genetico, e me ne nasce una, poderosa, proprio dal cuore. Mi vergogno un po’ ad ammetterlo, ma è così.

L’ammaccatura è di quelle tipiche da gran sportellata della macchina a fianco. Bel segno profondo, esattamente al centro della portiera, la vernice è saltata via lasciando un piccolo cratere. Richiama lo sguardo. Non la tiri più via, tocca verniciarla un’altra volta, e cinquecento euri non li voglio più tirare fuori. Cazzo. Vabbè, anche stavolta non proprio “cazzo”, eccetera eccetera.

Nella mia testa inizia l’indagine per individuare il colpevole. Osservo il posto vuoto accanto al mio e mi chiedo: chi c’era ieri sera parcheggiato qui? Mentre cerco nella memoria guardo le macchie d’olio sull’asfalto, e penso che se ci fosse qui Grissom ne prenderebbe subito un campione, farebbe il calco delle tracce delle gomme, magari raccatterebbe anche uno o due mozziconi che non si sa mai.

Frullerebbe il tutto, lo metterebbe dentro il fotospettrometro molecolare e in due minuti mi darebbe nome e cognome del bastardo. Come no. Anche se sono soprapensiero il mio sguardo chiama vendetta e omicidio, le macchie d’olio se ne accorgono e iniziano a sentirsi minacciate, vorrebbero scappare ma sono lì incollate alla strada e non possono.

Allora. Era una Peugeot 206 blu scuro metallo. Non era quella tre porte, altrimenti sarebbe stata della tipa della palazzina di fronte, secondo piano. Era cinque porte. Era di quello della palazzina di dietro, pianterreno. Il mio vicino di giardino.

Quello soprannominato lo psicopatico, che d’estate con le finestre aperte lo si sente un giorno sì e l’altro pure mentre grida insulti contro la moglie e la figlia. D'inverno è uguale, ma con le finestre chiuse lo senti solo se ti trovi per caso nella sua tromba delle scale. Quello che passa tutti i sabati e le domeniche a seminare, innaffiare, concimare e tosare il suo prato inglese, che ama più di sua figlia tant’è vero che lei non ha il permesso di giocarci sopra. Quello che alle riunioni di condominio ogni occasione è buona per attaccare briga. Quello.

Vado in ufficio, sono nervosa come una belva, ma pian piano col lavoro mi distraggo e mi passa. Però. Però qualcosa mi sta lavorando dentro. Di nascosto, come un fiume di lava sotterraneo, che scava la roccia piano piano ma in maniera inesorabile. La sera, sulla strada del ritorno, provo una strana sensazione di irrequietezza. Qualche giorno dopo tornando a casa, parcheggio sull’altro lato della strada. Spengo la macchina, scendo, e me la trovo davanti. La Peugeot blu scuro cinque porte del bastardo.

E’ lì, tranquilla e ignara del destino che la attende. Guardo la portiera blu che ha assassinato la mia, argento. Ovviamente nessuno si è fatto vivo, non dico per risarcire il danno ma almeno per scusarsi. O dire can crepa. La mia mano destra sembra animarsi di vita propria, scende automaticamente nella tasca del cappotto, a cercare il primo oggetto appuntito a tiro. E’ la chiave del blocca pedali, non è esattamente appuntita ma applicando la giusta pressione…

Mi guardo attorno con aria normale, avanzo verso la Peugeot, mi è di strada per arrivare al cancelletto, così magari se all’ultimo istante mi manca il coraggio tiro via dritto senza far niente, ma poi quando sono esattamente accanto ruoto il polso e inizio a percorrere la fiancata blu con la punta, deliberatamente, dal fanale posteriore a quello anteriore. Il rumore è basso, per niente allarmante, e mi provoca invece un gran senso di soddisfazione.

Aspetto di arrivare sotto la pensilina del cancelletto prima di guardare la chiave: pensavo di trovarci almeno un ricciolino di vernice blu attaccato sopra, e invece niente. Mi sento un po’ delusa ma mi dico, tra e e me, come faccio sempre: si può migliorare. Mentre cammino sul vialetto mi interrogo: non ho mai fatto una cosa del genere, cosa mi prende? E, soprattutto, da dove viene questa mancanza di rimorsi? Non è da me…

E infatti sto quasi per iniziare a pentirmi quando si mi bussa alla porta il ricordo dell’arrabbiatura che avevo la mattina di qualche giorno fa. E se c’è una cosa che so bene di me è che riesco a rivivere perfettamente un’incazzatura anche a distanza di molto tempo, figuriamoci poi se è fresca fresca. E allora mi decido.

Butto da parte il senso di colpa come un calzino bucato. E inizio. Nei giorni successivi, un colpetto di chiave ogni tanto. Un tot di colpi alla settimana. Niente che, preso singolarmente, possa attirare l’attenzione; ma, tutti insieme, creano un colpo d’occhio soddisfacente (per me). Un po’ meno per il bastardo. Certo, potrei dare una singola “zampata” clamorosa e chiudere il conto.

Ma mi piace di più così. Posso sentire il rumore della 206 blu che si svaluta, un pezzettino alla volta.

E non ho ancora finito.


L'ammaccatura nella foto, ovviamente, non è la mia. Ma gli assomiglia tanto.